«Con la strategia dei “campi”, l’Italia continua ad attuare nei confronti dei rom e sinti una politica discriminatoria che ghettizza tali comunità nei cosiddetti “campi nomadi”. Questa politica ha ripercussioni devastanti soprattutto sui minori, i cui diritti umani, dall’alloggio adeguato all’istruzione, dalla salute al gioco sino al diritto alla famiglia, risultano violati in maniera sistematica».
Così l’Associazione 21 luglio sintetizza “Figli dei campi”, libro bianco sulla condizione dell’infanzia in emergenza abitativa negli insediamenti formali, informali e nei centri di accoglienza riservati a soli rom in 9 città italiane: Roma, Milano, Napoli, Torino, Pisa, Lecce, Cosenza, Palermo, Latina e San Nicolò d’Arcidano (Oristano). In questi centri, risiedono 18 mila rom e sinti dei circa 40 mila totali che vivono nei “campi” del nostro Paese.
«I campi – si legge nel rapporto – nascono negli anni ’60 come “camping etnici”, una sorta di riserve indiane in salsa italica, per poi venire istituzionalizzati a partire dagli anni ‘80 con le leggi regionali». Alla segregazione spaziale segue quella sociale: gli 8 “villaggi attrezzati” della Capitale, ad esempio, anche se progettati all’insegna della presunta integrazione e legalità, sono quasi tutti fuori dal Grande Raccordo Anulare, distano mediamente più di 2 km dalla prima fermata di autobus e oltre 3 dalle poste e dal mercato più vicino. “Figli dei campi” è stato presentato alla Commissione Straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato. Ne parliamo con il suo Presidente, il senatore Luigi Manconi.
Negli ultimi 40 anni gli “zingari” sono sempre stati al vertice della classifica della diffidenza e dell'ostilità
– “Figli dei campi” insiste molto sul rapporto tra condizione abitativa e qualità della vita dei minori. Cosa ne pensa?
«La formula “patologie da ghetto” usata nel rapporto mi sembra drammaticamente aderente alla realtà dei fatti. La distribuzione dei gruppi sociali sul territorio è sempre legata a condizioni di natura demografica, economica, sociale e alla disponibilità dei servizi. Quando un gruppo vive in un segmento di territorio dove i servizi sono scarsi o assenti, inevitabilmente la sua condizione precipita nella marginalità, in uno stato che di per sé produce “patologie”. Lo sviluppo delle grandi città porta con sé questo processo di “trasferimento altrove”, oltre lo sguardo della comunità dei garantiti. Gli oggetti-luoghi che rappresentano la marginalità provocano panico morale e sono individuati come una minaccia. Di conseguenza, gli inceneritori, le aule bunker, le carceri, i Cie, i campi vengono via via allontanati dallo sguardo collettivo. Questo “trasferimento fuori” corrisponde alla rimozione operata dalla comunità cittadina: in senso psicanalitico, è la rimozione, ovvero la censura dei propri lati oscuri. Per analogia si può ricordare che, nel campo dell'edilizia, la rimozione è lo spostamento fisico dei detriti. Così la discarica dei rifiuti coincide con quella soggettiva (la censura sulle proprie ansie) e con quella sociale: si pensi che in alcuni casi, addirittura i campi nomadi sono costruiti su una discarica».
– Lei spiega una politica abitativa come un processo sociale, ma spesso quando si parla di rom e sinti si ragiona in termini etnici. L’eccessiva etnicizzazione di questo tema ostacola l’inclusione?
«Sì, negli ultimi quarant’anni in Italia gli “zingari” sono sempre stati al vertice della classifica della diffidenza e dell'ostilità. Il secondo posto in quella classifica è cambiato negli anni: ora i rumeni, prima gli albanesi, prima ancora i maghrebini. Ma anche i sardi, i siciliani, i calabresi. Fino gli anni ‘70 l’ostilità verso gli “zingari” non era così radicata. Forse è solo un’impressione superficiale, ma nel 1969 Iva Zanicchi e Bobby Solo vincono Sanremo, che allora era molto sintomatico del costume popolare, cantando “Zingara”, e nel 1971 Nada e Nicola di Bari vincono quello stesso Festival con “Il cuore è uno zingaro”. Potrebbe oggi vincere una canzone che utilizza la parola zingaro in modo elogiativo?»
– Già nella scorsa legislatura la Commissione diritti umani aveva descritto come molto grave la situazione dei minori rom. Tra le buone prassi, indicava le borse di studio del progetto “Diritto alla scuola, diritto al futuro” della Comunità di Sant’Egidio. Il 40% dei rom è in età scolare: non si potrebbe ripartire da un forte impegno per la loro scolarizzazione?
«Sì, ho visto alcune baracche sgomberate dove tra le macerie si vedevano i quaderni con i compiti di una scuola faticosamente frequentata e interrotta dalle ruspe. Un fatto del genere è un sconfitta assoluta, un bambino scacciato da un percorso scolastico è una dichiarazione di resa per qualsiasi prospettiva di integrazione. Anche questo si ricollega all’espulsione dal circuito della vita urbana: la dispersione scolastica è collegata con la dispersione dell’esistenza stessa. Qui si manifesta come dissipazione di vite, spreco totale di intelligenza, distruzione di sviluppo sociale».
–Cosa può fare la Commissione che presiede?
«Il vero problema è l’attuazione della “Strategia Nazionale di Inclusione dei Rom, Sinti e Caminanti” del 2012. Per ora, il bilancio è modesto, molte amministrazioni locali si sono comportate con estrema superficialità. Per fare il punto della situazione e pensare a come rilanciare la strategia, il ministro Kyenge riferirà alla Commissione. Inoltre, sto per presentare un disegno di legge per il riconoscimento del Porrajmos, il genocidio dei rom e sinti da parte del nazismo, e ho firmato la proposta del senatore Palermo perché per il riconoscimento dei rom e sinti come minoranza, poiché credo che l’esigibilità e l’effettività dei diritti discendano direttamente dall'affermazione delle identità».