Occorre passare un paio d’ore alla Stazione Centrale. Occorre andare nei centri d’accoglienza, fra i volontari delle associazioni, nelle parrocchie o nei centri Caritas. Occorre osservare gli ospiti della Casa della carità prodigarsi per chi oggi sta peggio e arriva affaticato e spaurito, reduce da mesi di viaggio per deserto e mare. Occorre andarci vicino, a questa enorme catena solidale, e spiare gli sguardi di chi aiuta e di chi è aiutato. Basta fare questo per sentire così artificiale, disumano e pretestuoso il tuonare di chi dice “aiutiamoli a casa propria” e parla di “invasione”, per lucrare qualche manciata di voti. L’Italia che ascolta quei vuoti proclami c’è, ma quella che si mobilita è più forte. E più bella. È una fitta rete di “anonime formichine” che esce di casa e indossa la casacca di volontario, o fa la spesa per loro, per gli “invasori” dalle facce sfigurate. Non va in tivù, ma sa cosa fare quando qualcuno ha bisogno d’aiuto. Ecco qualche frammento di questa Italia.
Chiara sta aspettando di laurearsi, i giorni liberi ha deciso di utilizzarli alla Stazione Centrale, dal mattino a sera tardi, ad assistere gli immigrati che arrivano. Mirella fa parte di un gruppo di volontari formatosi su Facebook: ha visto l’emergenza, s’è attaccata un cartellino col nome al petto ed è venuta a dare una mano. Una signora spiega di essere appena giunta dal Canton Ticino, in Svizzera: «Da noi gli immigrati li bloccano alla frontiera», spiega. «Allora abbiamo pensato di dare qui il nostro aiuto». E tanti altri, privati cittadini e membri di associazioni, volontari esperti e improvvisati. Persone sensibili “senza nome” arrivano con un sacchetto di generi alimentari, con i pannolini per i neonati, con giocattoli, con coperte, saponi, vestiario.
I milanesi ci sono, anche questa volta. Com’è successo all’indomani delle devastazioni dei “No Expo”: «Qui non è la nostra città a essere sporcata, ma lo sarebbe la nostra coscienza se non dessimo una mano», dice uno di questi “senza nome”.
È un andirivieni continuo alla Centrale. Ora il punto d’accoglienza è stato spostato. I nuovi locali sono stati approntati in una notte: «Ci hanno consegnato le chiavi ieri alle 17, stanotte abbiamo dato un’imbiancata alle pareti e stamattina abbiamo aperto», spiega uno degli operatori del Progetto Arca, che coordina i volontari della Centrale. Ci sono quelli di Save the Children, di Emergenza Siria, c’è la Protezione civile. C’è anche uno spazio per far giocare i bambini. Nella stanza accanto mamme e papà chiedono un vestitino, un po’ d’acqua, qualcosa da mangiare. Sono appena arrivati, in un paio d’ore saranno trasferiti in uno dei centri di accoglienza allestiti dal Comune di Milano, poi probabilmente ripartiranno, verso il Nord Europa.
«In Stazione Centrale abbiamo chiesto di smettere di portare aiuti. È stato un continuo, giunti alla spicciolata da singoli cittadini, gruppi, persone di tutti i tipi che si sono mobilitati». A parlare è Pierfrancesco Majorino, assessore alle Politiche sociali del Comune di Milano. «È una rete che è riuscita a reggere, non da oggi ma dall’ottobre 2013. E non sappiamo quando e se finirà», aggiunge. Lo incontriamo in via Corelli: «Qui c’era il Centro di identificazione ed espulsione», spiega, «oggi vedete i bambini che giocano in cortile. Questo è il risultato di un percorso fatto dalla città». Oggi il centro è gestito da Gepsa con l’associazione Acuarinto: 300 posti letto, elevati a 500 con le tende della Protezione civile milanese. Altri 200 posti sono pronti nell’edificio accanto, appena terminato, affidato alla Croce Rossa italiana.
«È un flusso enorme che si deve immaginare come una fisarmonica: i centri si riempiono e si svuotano in continuazione», sottolinea Majorino. «Ma in tutto questo tempo non abbiamo mai ricevuto una telefonata da qualche istituzione che ci avvisava dei gruppi in arrivo. Questo è il vero problema: l’Italia è priva di strumenti per gestire il flusso. L’immigrato è in transito non solo per ciò che accade al di là del Mediterraneo ma anche al di qua: il nostro Paese è meno attrattivo, per la crisi, e quindi vogliono andare verso il Nord Europa. Occorrono strumenti normativi per affrontare il fenomeno. Non è più emergenza è quotidianità, che va organizzata. Due notti fa ne abbiamo accolti 1.340. Ma siamo arrivati a picchi di 2.600».
L’assessore presenta i dati: dall’ottobre 2013 sono stati accolti 65.500 profughi di cui 14.400 minori, in maggioranza siriani (42 mila) ed eritrei (16 mila). Da gennaio 2015 gli arrivi sono stati circa 12 mila, ma nel solo periodo maggio-giugno sono passati 7 mila profughi, con solo dieci richieste di asilo. «Ce l’abbiamo fatta anche perché dal 2011 in poi abbiamo elevato i 1.248 posti letto per i senza tetto a 2.700. È frutto di un lavoro costruito nel tempo, in collaborazione col Terzo settore».
Il Terzo settore è, ad esempio, la Casa della carità, guidata da don Virginio Colmegna. Qui, nella famosa notte dell’emergenza, don Virginio ha chiamato a raccolta gli operatori e i 140 ospiti: «Ragazzi, stanno per arrivare 98 profughi. Diamoci da fare». Si sono dati da fare.
Al momento dell’arrivo dei pullman c’erano le brandine, le coperte, un po’ di cibo per tutti: «Questa povera gente mi ha toccato il cuore», dice Roberto, un ospite “veterano” della Casa. Ma accanto a Roberto c’erano Mohammed, Yusuf e tanti altri, a loro volta profughi arrivati in Italia qualche mese o anno fa, divenuti all’improvviso volontari per dare una mano «a chi stava peggio di noi».
«Le affermazioni xenofobe e il teatrino della politica mi mettono solo tristezza», commenta don Colmegna. «Quelle che hai davanti non sono cifre e teorie, sono persone. In loro non posso che vedere il Gesù crocifisso». «Chi dice “li aiutiamo a casa loro” non sa di cosa sta parlando», aggiunge Laura Arduini, psichiatra presso la Casa della carità. «Chi dice certe cose sembra non abbia mai guardato in faccia le persone di cui parla».