Ok boomer, l’espressione usata dalla deputata neozelandese Chlöe Swarbrick in risposta a un collega attempato che aveva provato a interromperla durante un intervento su una questione ambientale, rappresenta, tra l’ironico, l’affettuoso e a volte lo scherno, lo slogan di un divario generazionale tra giovanissimi millenials e l’ingombrante esercito di, ormai maturi o anziani, nati tra il 1946 e il 1964. Venuti al mondo durante un ventennio in cui, grazie al boom economico del dopoguerra, ha avuto inizio quell’incremento demografico che oggi è ormai solo un ricordo. Quest’anno gli ultimi boomer, i nati nel 1964, l’anno in cui la natalità ha raggiunto l’apice nel nostro Paese, compiono 60 anni. Ne parliamo col professor Gioachino Lanotte, docente di Storia contemporanea presso la Cattolica di Milano, per avere un quadro di chi siano, o siano stati: «Il ragionamento riguardante l’inquadramento cronologico di questa generazione è più complesso. Per questo mi sento di dire che in realtà anche quelli nati alcuni anni dopo il ’64 possono essere considerati in qualche modo baby boomer, perché accumunati da due aspetti».
Quali sono?
«Innanzitutto, il primo è quello di appartenere a una generazione che ha vissuto la nascita della cultura giovanile che si è sviluppata in un arco di tempo meno definito e un po’ più ampio. I giovani, da una dimensione prettamente biologica e anagrafica, diventano una categoria sociologica a tutti gli effetti. Si qualificano come soggetto sociale specifico, interessante per il mercato. Il quale a sua volta, da subito, si è mostrato pronto a intercettare questo cambiamento epocale. Nascono gli oggetti di consumo per i giovani, la musica, l’abbigliamento, i mezzi di trasporto come il motorino. Il giovane fa irruzione attiva nel mondo, dove prima invece doveva solo aspettare di diventare adulto».
E l’altra caratteristica?
«È quella di avere vissuto la cosiddetta “età dell’oro” (’46-73), come la chiama lo storico Eric Hobsbawm. Il Piano Marshall, la politica per la ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale, ha dato un impulso fortissimo alla crescita economica e quindi al benessere delle persone e al conseguente sviluppo demografico. Ha generato un periodo storico di crescita di cui hanno goduto anche coloro che sono nati ben oltre il 1964».
Sono stati anni di grandi cambiamenti e scoperte?
«Certo. Le prime crisi economiche sono arrivate negli anni ’70. Ma prima, chi era giovane in quegli anni, è vissuto pensando che tutto o quasi tutto fosse possibile. Pensiamo solo allo sbarco sulla Luna. Fino ad allora la Luna cosa era? Era quella dei poeti, Leopardi e Foscolo. Era dove Ariosto immaginava che ci fossero le lacrime e i sospiri degli amanti, i progetti che qui non hanno mai loco. Insomma, si compie questa impresa che schiude orizzonti inimmaginabili. Si intravedeva allora un mondo in cui tutto sarebbe andato per il meglio. Ma poi non è stato così».
E com’è andata?
«Stiamo parlando di una generazione vissuta a cavallo tra due secoli e tra due epoche, una prima parte senza guerre, crisi economiche, epidemie… ma che, poi, ha visto il mondo cambiare in modo repentino. Ha dovuto affrontare il prima e il dopo. Per le generazioni precedenti le trasformazioni avvenivano lentamente. I baby boomer si sono trovati, velocemente, a vivere guerre e pandemie per non parlare della comparsa e affermazione del digitale che è stata davvero rapida. Una rivoluzione di una portata enorme, soprattutto pensando che l’ultima di tale entità era stata quella industriale a fine ’700».
Hanno quindi perso il loro ottimismo?
«Credo che i baby boomer abbiano la capacità di non cedere alla nostalgia come rimpianto, quella che ti fa dire “ai miei tempi”, “noi sì che…”, ma, come scrive Recalcati, hanno preferito la “nostalgia gratitudine”, cioè la capacità di mettere insieme il prima e il dopo, le due epoche in cui sono vissuti, e di dialogare con le altre generazioni. D’altronde quella dei baby boomer era caratterizzata dalla capacità di condividere».
In che modo lo facevano?
«Era l’epoca delle assemblee, dei collettivi, della voglia di parlare e comunicare le proprie idee che appartenevano alle grandi ideologie. Il cattolicesimo, il comunismo o l’essere di destra facevano sì che la gente avesse desiderio, per il proprio ideale, di svegliarsi al mattino e volontariamente organizzare i picchetti a scuola, vendere l’Unità davanti alla fabbrica, o Famiglia Cristiana dopo la Messa. C’erano grandi figure di riferimento come Kennedy, Ghandi, Martin Luther King o papa Giovanni XXIII che aveva dato il via al Concilio Vaticano II e la speranza di avvicinare la Chiesa alla fede della gente».
Anche la musica era un fattore di grande unità?
«Certo, perché la si ascoltava tutti insieme, tenendo in mano un oggetto pieno di fascino come un Lp e riuniti attorno a un giradischi. Oggi se ne fruisce da soli con gli auricolari nelle orecchie. Ma anche i contenuti erano altri, i testi parlavano di cultura, di poesia, di storia, raccontavano mondi lontani, e se il tema era l’amore era poesia pura. Penso ai folk singer come Dylan e la Baez. Oppure ai Beatles, o ai nostri cantautori, De André o Guccini, capaci, tra l’altro, di toccare, pur nel loro agnosticismo, vette di spiritualità altissime».
Per concludere… vittorie e sconfitte dei baby boomer?
«C’è una scritta sui muri che vedo spesso tornando a casa dal lavoro. Dice “Non c’è più il futuro di una volta”, lo racconto perché ciò che caratterizzava i baby boomer era la certezza di avere davanti un futuro positivo. La sconfitta forse è il fatto che non sia andata così. Se penso, invece, a una vittoria mi viene in mente quella di aver conosciuto, tramandato e tenuto vivi miti artistici e culturali capaci ancora oggi di parlare ai giovani e, soprattutto, di conservare una passione insopprimibile per la speranza».