Lo storico Walter Barberis, 70 anni, davanti a Palazzo Reale, in Piazza Castello, cuore politico, artistico e culturale di Torino. Tutte le foto di questo servizio sono di Paolo Siccardi/Walkabout per Famiglia Cristiana.
Qui si fa l’Italia, oggi come ieri. Sono passati esattamente 160 anni da quel 17 marzo 1861, atto ufficiale di nascita della nostra nazione. Era un’unificazione ancora parziale, poiché mancavano il Lazio e il Triveneto, ma aveva una portata simbolica destinata a cambiare la storia. Oggi, in un’Italia col fiato corto, stremata dalla pandemia e lacerata da tanti contrasti, è importante rileggere quella pagina, molto più legata al presente di quanto, a prima vista, si possa credere. Così eccoci a Torino, là dove tutto è cominciato. La città subalpina, prima capitale del neonato regno d’Italia e sede del primo parlamento nazionale, conserva ancora tante tracce di una stagione animata da speranze e grandi ideali, ma anche percorsa da profondi dissidi.
Pochi metri separano Palazzo Reale, in piazza Castello, cuore della città, dal vicino palazzo Carignano, nell’omonima piazza. Entrambe le residenze sabaude (la prima per la firma, la seconda per l’annuncio) sono legate allo statuto albertino, concesso da re Carlo Alberto nel 1848, divenuto poi, dal 1861, ordinamento del regno d’Italia e restato in vigore fino al 1948. È il punto da cui conviene partire. Sì perché, come ci spiega lo storico Walter Barberis, «dopo la promulgazione dello Statuto, circa 50.000 persone provenienti da diverse regioni, compresi alcuni grandi intellettuali, arrivarono in città, attratte dalle libertà di stampa, culto e associazione che il nuovo ordinamento garantiva». Ecco come una città di confine, dove fino a quel momento si era parlato francese più che italiano, iniziò a diventare decisiva per i destini della futura nazione. Erano i primi esperimenti, i primi bozzetti di unità, fondamentali benché ancora limitati a una ristretta cerchia: l’Italia che fino a quel momento era stata più che altro un’idea astratta, cominciava a guardarsi in faccia, a parlarsi.
Già, a parlarsi. Ecco al riguardo un luogo simbolo: l’aula del Parlamento subalpino, poi camera del Regno, dove lo Stato unitario ha mosso i primi passi a livello normativo. L’emiciclo, allestito nel 1848 nell’ex sala da ballo di palazzo Carignano, è perfettamente conservato e sembra ancora restituire le voci di deputati e ministri. Sembra di vedere Cavour intento a tessere la sua rete di accordi e alleanze. E val la pena scorrere i nomi dei presidenti dell’assemblea. Il primo in assoluto (parliamo ancora del regno di Sardegna), nominato pochi mesi dopo la promulga dello Statuto, fu l’abate Vincenzo Gioberti, religioso e patriota. È questo un dato che ha qualcosa da dirci.
Ferruccio Martinotti, 57 anni, direttore del Museo nazionale del Risorgimento di Torino, nell'aula del Parlamento subalpino, a Palazzo Carignano, che ospitò per un po' anche il primo Parlamento italiano. Foto Paolo Siccardi/Walkabout per Famiglia Cristiana..
Sì, perché la storia del Risorgimento è anche storia di fede e a determinare l’unità nazionale contribuirono l’impegno e l’ingegno di tanti cattolici. Certo, però, non fu una strada piana. Anzi, per i credenti fu una lacerazione profonda. Il neonato regno d’Italia decretò, di fatto, la fine dello Stato Pontificio e di una certa idea di Chiesa. Nel 1870 si giunse al punto di non ritorno: la breccia di Porta Pia, la “prigionia” di papa Pio IX, il non expedit (cioè il divieto, per i cattolici, di intervenire nella politica nazionale). Eppure, nonostante queste forti tensioni, «la comune fede cattolica fu tra i principali collanti del neonato popolo italiano», ci ricorda ancora Barberis. Del resto, canti e inni di quel tempo sono fortemente intrisi di sentimento religioso.
Ma torniamo all’aula del primo Parlamento. Oggi la sala è inserita nel Museo Nazionale del Risorgimento, che ci offre un viaggio a tutto campo nella storia. Tanti simboli restano impressi: la ricostruzione della cella di Silvio Pellico (altro splendido esempio di cattolico), la tenda dell’esercito sabaudo alla prima guerra d’indipendenza, lo spartito manoscritto del Canto degli Italiani (più noto come “Fratelli d’Italia”, il nostro inno nazionale), Mazzini, Garibaldi a cavallo, Cavour, ma anche figure femminili, dalla Contessa di Castiglione ad Anita Garibaldi. Il Museo celebra il 160° anniversario dell’unità nazionale con una giornata di incontro e confronto, trasmessa in streaming sul sito www.museorisorgimentotorino.it. Protagoniste, accanto a rappresentanti della politica e delle istituzioni, tante anime del volontariato torinese. Tra loro suor Giuliana Galli (religiosa del Cottolengo, presidente Fondazione Mamre) ed Ernesto Olivero (fondatore del Sermig, Servizio missionario giovani). «Il risorgimento è qui e ora e tutti possiamo farne parte» spiega Ferruccio Martinotti, direttore del Museo. «Oggi come in passato, a fare la differenza sono il coraggio, la lungimiranza e l’impegno per gli altri».
Ma il Museo del Risorgimento non è la sola istituzione a dar lustro alla memoria. Se a palazzo Carignano aveva sede la Camera dei deputati, il Senato (i cui componenti erano di nomina regia) si riuniva a palazzo Madama, altra splendida dimora sabauda nel cuore della città. Recentemente è stata annunciata un’imponente opera di restauro della facciata del palazzo, che fu progettata nel Settecento dal grande architetto Filippo Juvarra. Per restituire alla struttura il suo splendore originario e metterla in sicurezza per i prossimi decenni, aprirà un grande cantiere, dove antiche tecniche artigianali si affiancheranno a metodologie di ultima generazione. Promosso dalla fondazione Torino Musei e interamente finanziato dalla Fondazione Crt, l’intervento di restauro si concluderà a fine 2022.