Quando sei piccolo, molto piccolo non puoi dire a parole quanto stai male. Per te parla il tuo corpo, il tuo sguardo, i lividi che hai sulla pelle, il tuo ritardo di crescita. Quando chi ti dovrebbe proteggere in realtà sta diventando il tuo carnefice, non puoi dirlo in giro. Perché quella casa violenta in cui vieni picchiato e ridotto a carne da macello, resta comunque l’unica certezza che hai. Chi lavora con i bambini abusati, sa con quanta determinazione essi proteggano gli adulti che li maltrattano e li picchiano. Vivono nella casa degli orrori e paradossalmente da lì non vorrebbero mai andarsene. A volte la televisione ci mostra scene strazianti di bambini che vengono strappati dai servizi sociali ai loro genitori mentre urlano: "No, non voglio andare via". E sulla retorica di queste immagini, si parla di servizi sociali che maltrattano bambini per strapparli a famiglie che invece hanno tutto il diritto di non vederseli portare via.
La verità non sta mai in queste rappresentazioni fittizie del reale. Ci sono famiglie che amano i loro figli, ma ci sono anche famiglie in cui i figli soffrono, vengono maltrattati e picchiati, trascurati e abusati. I bambini, però, questa terribile verità che li riguarda, non la raccontano mai. E’ responsabilità di chi entra in contatto con loro decifrare le tracce del dolore in cui sono immersi e salvarli da situazioni in cui rischiano di affogare.
Nella storia del piccolo Evan Giulio, morto a un anno e nove mesi perché picchiato a sangue dal convivente della madre le responsabilità e le omissioni sono davvero tante. La sua è una morte che poteva essere prevenuta. Il padre, trasferitosi a Genova, dove era andato a cercare lavoro dopo la fine della relazione con la madre di suo figlio, il 6 agosto aveva inoltrato un esposto in Procura, tramite il suo avvocato, in cui segnalava lo stato di grave rischio in cui si trovava il figlio. Quel documento è stato recapitato a Siracusa con quasi venti giorni di ritardo. Il bambino era entrato e uscito più volte dall’ospedale locale, con accessi al pronto soccorso sempre motivati da lesioni traumatiche, di cui alcune molto gravi. Nei protocolli di diagnosi differenziale di abuso all’infanzia, il ripetuto ricorso alle cure ospedaliere per fratture, lividi e contusioni è sempre un indicatore al quale si deve dare un'enorme attenzione, eventualmente tenendo in osservazione il bambino in ospedale e guardando come reagisce al cambio di ambiente e come interagisce con gli adulti che di lui si prendono cura: Non si può salvare un bambino dagli abusi in famiglia solo quando è lui a raccontarli.
Perché spesso i bambini non li raccontano. Evan Giulio era troppo piccolo per poter dire in quale inferno era costretto a vivere. Però esistevano molte prove del suo star male. I ripetuti accessi in ospedale, l’esposto alla procura fatto dal padre. E probabilmente anche le urla e le botte dentro le mura di casa che si sentono da fuori. Ma che quasi mai, portano chi sente (e magari vede) a richiedere aiuto e protezione per un piccolo che non sa e non può farlo per sé. Alla fine, questa storia ci strazia di dolore perché ci parla di un bambino trattato come un oggetto, una sorta di bambolotto senza corpo e senza voce, senza occhi e senza diritti. Solo che i bambolotti non muoiono. I bambini sì.