Un ragazzo a Gaza (foto Scaglione).
«Mio marito lavorava in un negozio di Gaza, rivendeva prodotti importati dall’Egitto. Guadagnava poco, ma avevamo deciso di rimanere accanto a mia suocera, malata di cuore. Durante l’ultima crisi, con la chiusura dei tunnel il capo gli ha detto non c’era più lavoro». Incontro Dhuha, insieme al marito e alla figlia di 4 anni, alla Stazione Centrale di Milano. Affidandosi a trafficanti, hanno lasciato “la gabbia di Gaza” espatriando in Egitto. Da lì, tre giorni in mare stipati sul barcone e pochi giorni al centro di Pozzallo in Sicilia; poi una nuova fuga, in treno verso Milano, dove si trovano ora. La meta è la Danimarca, dove vive una cugina. L’azzardo è ora individuare il trafficante giusto, che non fugga con i soldi ma che li accompagni a destinazione attraversando indenni le frontiere interne dell’Europa.
Dhuha mi mostra sul telefonino foto raccapriccianti, dalle macerie di una casa spunta un braccio sanguinante di un ragazzino. «Abbiamo deciso di partire», mi dice in ottimo inglese, «quando mio marito ha perso il lavoro, ma la disperazione ci aveva travolto da prima. Vedo morti e macerie da quando sono nata, che futuro posso sognare per lei?». Indica la bambina che scarabocchia su un quaderno distribuito da uno dei volontari attivi in Stazione.
A Milano, tra i profughi siriani ed eritrei che transitano verso il Nord Europa, comincia a comparire anche qualche palestinese di Gaza (gazawi). Iniziano ad esserci anche tra i cadaveri che affogano nel cimitero Mediterraneo, finendo magari mangiati dai pesci e corrosi dal sale. Lo conferma il bollettino di guerra delle ultime settimane: il 14 settembre, 15 giovani gazawi sono morti nel rovesciamento di un battello di fronte alla spiaggia di Al-Ajami, nei pressi di Alessandria; insieme ad altri 72 compagni di viaggio, erano fuggiti dalla Striscia passando sotto i tunnel con l’Egitto ed erano diretti in Italia. Il giorno prima, il 13, tra le oltre 400 vittime del naufragio a 300 miglia a sud est di Malta, molti erano palestinesi di Gaza e Khan Younis.
Ad Abassan, nel Sud della Striscia, Samir Asfour, il padre di uno dei ragazzi affogati, ha raccontato che la tariffa chiesta dai trafficanti è di 1500 dollari, ma lui ha accettato di pagarne 2000 in cambio dell’assicurazione di un posto su una barca grande, robusta, non una piccola che sarebbe potuta affondare. Suo figlio Ahmed sperava di raggiungere l’Europa per curarsi: durante i precedenti bombardamenti del 2008-09, aveva perso un occhio ed era stato ferito alle gambe e al pancreas. È morto insieme al cugino Raed, di 17 anni.
Uno dei pochi sopravvissuti di quel naufragio è Maamon Dogmoush, che ora si trova nel centro di accoglienza di Safi, a Malta. In una testimonianza raccolta dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ha detto di essere partito con tre familiari, tutti scomparsi: «Dopo cinque giorni, le persone hanno iniziato a morire. Il figlio di mia sorella, di 5 anni, è morto tra le mie braccia».
Secondo alcune fonti, sono più di mille i giovani scappati dalla Striscia; numerosi sono anche i gazawi arrestati dalla polizia egiziana per ingresso illegale in Egitto, da dove partono i barconi per l’Italia. «È un fenomeno nuovo – dice Meri Calvelli, cooperante dell’Associazione Cooperazione e Solidarietà – non si era mai verificato in precedenza che cittadini di Gaza se ne andassero in numeri così consistenti affidandosi agli scafisti». Fatah e Hamas, intanto, si accusano a vicenda di connivenza con i trafficanti che gestiscono i tunnel sotterranei per passare in Egitto.