Poco
prima di Ferragosto, li hanno fermati mentre trasportavano in un
furgone 14 immigrati, tra i quali un bambino di dodici anni e due
donne in gravidanza. I due uomini, di nazionalità rumena,
entrambi
braccianti agricoli, erano i “caporaletti” che piazzavano i loro
connazionali nei
campi di pomodoro di Cerignola, in provincia di Foggia.
Ora
sono
accusati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro in
concorso, e di sequestro di persona e riduzione in schiavitù; da
agosto dello scorso anno,
infatti, con il Decreto dell’allora ministro Riccardi, l’Italia
ha introdotto il reato di caporalato, uniformandosi alla normativa
europea.
«Un
provvedimento veramente molto utile», secondo Gianni Forte,
Segretario generale della Cgil Puglia. «Anche quest’anno»,
commenta Forte, «notiamo
una maggiore attenzione dello Stato a recuperare il proprio ruolo,
evitando di arretrare di fronte ai caporali. In passato,
l’atteggiamento sembrava segnato da un’inerte rassegnazione
all’illegalità. Come sindacato, abbiamo spinto per questo cambio
di atteggiamento e abbiamo visto segnali positivi: la recente visita
in Salento della ministra Kyenge, la pronta collaborazione delle
forze dell’ordine, l’importante protocollo di intesa firmato il 6
agosto tra la Regione Puglia, il Governo e la Prefettura per
favorire la collaborazione interistituzionale contro l'illegalità e
il lavoro sommerso».
Secondo la Cgil, sono
almeno 400 mila le
vittime dei caporali e caporaletti dell’agricoltura italiana.
Un esercito di invisibili,
un quarto dei quali costretti a vivere in condizioni di sfruttamento
e semi-schiavitù, per un danno alle casse dello Stato di almeno 420
milioni di euro l’anno.
Il caporalato trasforma i braccianti in schiavi
Sono
i numeri dell’illegalità
lavorativa in agricoltura
(43% dei lavoratori dipendenti) secondo il rapporto “Agromafie e
caporalato” della Flai-Cgil. Ma il caporalato è anche un «reato
spia di infiltrazioni mafiose nel settore», spiega Anna Canepa,
della Direzione nazionale antimafia. Il tutto per un
giro d’affari tra i 12 e i 17 miliardi di euro l’anno,
circa il 10%
dei guadagni della criminalità mafiosa.
In crescita esponenziale anche le confische nel settore: dall’inizio
del 2008 sono aumentate del 65%.
È il caso dell'azienda agricola Suvignano
di
Monteroni d'Arbia, nella ridente e insospettabile provincia di Siena,
che ospita il bene confiscato più grande d'Italia.
Nell’agricoltura, il
caporalato trasforma i braccianti negli schiavi del 21° secolo,
secondo una mappa dell’indecenza che unisce tutta la Penisola.
Dalla provincia di Cuneo a quella di Pavia, dalla Maremma ai famosi
distretti del vino italiano, come la Franciacorta e il Chianti. Nel
Sud c’è un esercito di “uomini illegali” che vagano a testa
bassa da una campagna all’altra, per tappare i buchi del modello
mediterraneo dell’agricoltura, che senza i caporali non saprebbe
dove trovare le braccia necessarie. Spesso vivono
come uomini trasparenti: presenti quando c’è da spezzarsi la
schiena in campagna, ma invisibili quando si parla di diritti.
«Seguiamo
le stagioni», spiega Eliza, polacca. «Le arance a Gioia Tauro, le
primizie a Caserta, le angurie in Puglia, il melone in Basilicata, le
olive ad Alcamo».
Vengono reclutati dai
loro stessi connazionali, i “capineri”, come per i rumeni
arrestati a Cerignola. Sono loro a stringere gli accordi con il
“padrone bianco”, i capi italiani. E a tenersi gran parte degli
stipendi. «Orari?
No, non ci sono, li decide il capo», spiega John. Vive in una
baraccopoli a San Severo: «Il capo viene a prendermi prima del
sorgere del sole». John si spezza la
schiena tra perini e pomodori da insalata nella Piana
della Capitanata in provincia di Foggia,
dove il 95% dei braccianti lavora in nero.
I diritti non esistono
Lo racconta nel
documentario “Caponero Capobianco”, prodotto da ZaLab. Chi
protesta viene zittito a colpi di spranga, perché il sangue serve da
lezione. Tutti sono pagati “a cassetta”: 3 euro e mezzo per una
da mezza tonnellata. I
caporali impongono anche le proprie tasse giornaliere ai lavoratori:
5 euro per
il trasporto, 3,50
per il
panino e 1,50 per ogni bottiglia d'acqua.
Non esistono diritti:
«Ho
visto persone che si sono fatte molto male, e non sono state soccorse
dal loro padrone», ricorda John, chiedendosi: «Ma
di chi è la colpa?».
Sembra quasi rispondergli Idriss, ghanese:
«In tre
anni tra angurie e agrumi, non ho mai visto un controllo sul posto di
lavoro. Per noi, chiedere il rispetto delle regole significa come
minimo perdere il lavoro. Un mio connazionale ha protestato perché
non lo pagavano da due mesi ed è finito all’ospedale con le ossa
rotte».
La sua è una storia
comune tra le campagne italiane: “viaggio della speranza” nel
Mediterraneo, centro per richiedenti asilo a Trapani, rifiuto della
protezione internazionale e del permesso di soggiorno, lavoro nero.
E se ti ammali, paghi pure la multa
Ma nei mesi della
raccolta, le campagne del Meridione richiamano braccianti anche dal
Nord. Come Robert, 36 anni, che a Brescia aveva un contratto regolare
e lavorava come facchino. Perso il lavoro, non ha potuto rinnovare il
permesso di soggiorno. Ora, con un decreto d’espulsione alle
spalle, è tagliato fuori dai giochi, oltre che ancora più
ricattabile dagli aguzzini. «Ma almeno mando qualche soldo a mia
figlia Pat di 5 anni e alla mia famiglia». Può sembrare assurdo, ma
in Togo, dove una giornata di lavoro è pagata poco più di un euro,
anche i “nuovi schiavi” sono la dimostrazione pratica, per quanto
paradossale, che il sogno europeo funziona.
«Ma alle nostre
famiglie non raccontiamo che mangiamo alle mense della Caritas e che
condividiamo in due un lurido materasso», aggiunge Robert. Pochi
riescono a trovare un alloggio degno di questo nome; alcuni si
organizzano in gruppi di 5-10 persone in abitazioni occupate, che
diventano 15-20 nei casolari.
Molti invece affollano
baraccopoli, ghetti
e vecchie fabbriche, senza
acqua, né luce, alle volte controllate dai caporali. Condizioni
igienico-sanitarie spaventose si sommano a malattie, infezioni
alle vie respiratorie, aggravate dal freddo e dal fumo dei fuochi
accesi per riscaldarsi, disturbi dell’apparato gastrointestinale
dovuti a diete povere. Spiega Robert: «Il peggio è quando stai male
perché nei campi respiri i pesticidi, o perché bevi acqua non
potabile. Se ti ammali e non vai al lavoro, devi pure pagare una
multa».
Ogni tanto, ci scappa
il morto. Yeroslav
Hrinchishyn, ucraino, uno dei tanti “invisibili” di Rosarno, l’ha
ammazzato il freddo a 44 anni dopo una lunga giornata di lavoro, il
14 febbraio 2012. Due anni fa, una polmonite bilaterale e i troppi
anni passati a raccogliere pomodori a Foggia
si sono portati via Fakemo Kante,
un bracciante di 37 anni arrivato dal Gambia.