I dati risalgono agli ultimi giorni di agosto. Il Prri, ovvero il Public religion research institute, aveva attestato un divario di 23 punti tra le intenzioni di voto a favore della Clinton espresse da elettori dichiaratamente cattolici (il  55 per cento del totale) e quelle pro-Trump (32 per cento), un significativo distacco che aumentava, salendo al 27 per cento, secondo un analogo sondaggio condotto negli stessi giorni dal Washington Post insieme all'emittente televisiva Abc che vedeva i cattolici preferire di gran lunga la Clinton (61 per cento contro 34 per cento). Un divario che non pare proprio colmabile, viste  tra l'altro le ultime polemiche scatenate dalle frasi sessiste pronunciate dal candidato repubblicano.  

Le posizioni care a Donald Trump in campo economico (ispirate a una visione estrema e non regolata del liberismo, giusto quella contro cui ha messo in guardia la Laudato si') e in campo sociale (di chiusura pressoché totale nei confronti degli immigrati) gli hanno alienato la simpatia di buona parte dell'elettorato cattolico che non ha certamente gradito i suoi attacchi frontali contro papa Francesco, condivisi da altri esponenti di spicco del partito. Chissà, scrive il Washington Post, magari questo ostinato voltare le spalle al magnate è anche merito (o colpa) di Jorge Mario Bergoglio, con quella battuta fulminante pronunciata mesi fa in aereo, di ritorno dal Messico (era il 18 febbraio 2016): «Una persona che pensa soltanto a fare muri, sia dove sia, e non a fare ponti, non è cristiana. Questo non è nel Vangelo». 

La posizione di Trump non migliora se si guardano le ultime mosse di Roma, per quanto queste ultime siano ovviamente slegate dall'aspra campagna presidenziale in corso, figlie di strategie ecclesiali di medio-lungo periodo e non di posizionamenti pro e contro qualcuno. I tre neo-cardinali annunciati da Francesco domenica 9 ottobre,  non paiono certo in sintonia con le posizioni del candidato repubblicano. Monsignor Kevin Jospeh Farrell, prefetto del nuovo dicastero Laici Famiglia Vita (e già arcivescovo di Dallas),  monsignor Blase Cupich, arcivescovo di Boston, e monsignor Joseph Tobin, arcivescovo di Indianapolis, tutto sono tranne che "cultural warriors", guerrieri a senso unico,  solo contro l'aborto o le nozze gay.  Per idee, storia personale e posizioni si presentano come vigili sentinelle del Vangelo e della Dottrina sociale su un vasto ventaglio di terreni, a partire da quelli della giustizia sociale e della tutela degli immigrati.  

Anche il più moderato dei tre, Kevin Joseph Farrell, non è stato tenero con la voglia di pugno duro che alimenta il programma dei repubblicani. Nel luglio scorso, dopo la strage di Dallas, monsignor Kevin Joseph Farrell all'epoca vescovo della diocesi texana, ha ricordato che «la violenza non si supera con altra violenza», ma «con la pace». In una nota, il presule definì «sconcertante» l’entità delle recenti «violenze», degenerate in un'“escalation” che «oramai ha toccato in profondità sia noi, sia tutto il nostro Paese ed il resto del mondo».

«Tutte le vite contano – ribadì  monsignor Farrell – neri, bianchi, musulmani, cristiani o indù siamo tutti figli di Dio ed ogni vita umana è preziosa». L'allora vescovo di Dallas, oggi prefetto del nuovo dicastero Laici Famiglia Vita e prossimo cardinale, esortò quindi i fedeli a «non perdere il rispetto l’uno per l’altro», sollecitando i leader a «dialogare e lavorare insieme per trovare una soluzione ragionevole per questo incremento della violenza». In una recente intervista al quotidiano La Stampa, poi, usò parole dure su Donald Trump: «E' oltraggioso quando dice che i messicani sono tutti stupratori e trafficanti di droga».