Da due anni girano
disperate con le foto dei figli incollate sui poster,
chiedendo tra sit-in e scioperi della fame che le istituzioni rendano
conto della vita dei loro ragazzi. Sono le mamme coraggio dei nuovi
desaparecidos
del Mediterraneo, giovani tunisini che dopo la “Rivoluzione dei
Gelsomini” sono partiti per l’Italia e di cui i loro parenti
hanno perso le tracce.
Manifestano
sulle due sponde del Mediterraneo, a
Tunisi come in Italia, chiedendo a tutti: “Prova
a immaginare: tuo fratello o tuo figlio parte e non dà più notizie
di sé dopo la sua partenza...”. Questo lamento di dolore è il
loro “harraga”, in arabo “colui che brucia”. Indica i
migranti, che bruciano la frontiera.
A
maggio, una delegazione di parenti era arrivata a Milano. Il motivo?
La presenza per un convegno del Sottosegretario agli Affari Sociali
tunisino. Proprio di quel Governo
che è sempre rimasto sordo alle loro richieste di aiuto,
respingendole con fastidio.
Sul muro dell’elegante
Piazza San Fedele nel centro di Milano, hanno incollato le foto dei
desaparecidos
in tempi di harraga. «Siamo
sicuri»,
spiega Rebecca Kraiem, dell’Associazione tunisina di Parma, «che
alcuni dei nostri figli siano arrivati in Italia, ma non sappiamo
nulla di loro. È questa certezza, che è insieme un punto di
domanda, che distrugge i genitori».
Come
la madre di Sabri, che sta impazzendo e ripete: «Se
avessi la certezza che fosse morto, almeno piangerei in pace».
Alcuni giorni dopo la partenza da Hammamet, ha ricevuto una
telefonata misteriosa, in cui una voce femminile ripeteva: “Sabri,
Sabri, Italia”. Poi più nulla da due anni. O come i genitori di
Karim, che oggi avrebbe 21 anni, partito dal quartiere
di El Kabaria a Tunisi e sparito nel nulla. I genitori riconoscono il
ragazzo in un fotogramma del Tg5 del 29 marzo 2011: è seduto sul
bordo di una barca stracolma, vicino a un molo, forse quello di
Lampedusa. «È
lui»,
indica
con certezza sua
madre Lamya. Ma poi non ha più notizie, nessuno sa che fine ha fatto
Karim. Il padre è da un anno in Italia alla ricerca del figlio,
mentre la moglie è rimasta a Tunisi, ripetendo a tutti: «La
mia vita è quel ragazzo lì».
L’8 aprile, Lamya non ce l’ha fatta più: ha tentato il suicidio,
buttandosi dalle scale, e ora è ancora allettata, con due costole
rotte.
Spiega
Rebecca Kraiem: «Temiamo
che i nostri giovani siano rinchiusi nei Cie (Centri di
identificazione e espulsione) o nelle carceri italiane, magari dopo
aver dato generalità false o essersi finti palestinesi e libici per
tentare la richiesta di asilo politico. Eppure sarebbe facile dare
una risposta a queste madri, se le autorità italiane e tunisine
collaborassero».
In
Tunisia, le carte di identità contengono le impronte digitali, che
venivano registrate anche a Lampedusa e in Sicilia immediatamente
dopo gli sbarchi. Basterebbe incrociare le impronte.
Nei mesi passati, una
delegazione delle madri – le poche fortunate che hanno ottenuto il
visto – ha anche incontrato le autorità del nostro Paese dopo aver
lanciato, insieme al collettivo femminista “Le Venticinque Undici”
e all’associazione “Pontes” dei tunisini in Italia, l’appello
“Da una sponda all’altra: vite che contano”. In
quell’occasione, una madre, Mounira,
ha detto: «Non
voglio aiuto, non voglio elemosina, non voglio un permesso di
soggiorno, voglio solo mio figlio, il mio e quelli di tutte le altri
madri… Voglio mio figlio».
Nel
frattempo, la lista dei desaparecidos
si è allungata, andando a comporre un dossier con 270 storie
documentate. Racconta Rebecca: «Lo
abbiamo consegnato alle istituzioni europee. In particolare, abbiamo
le prove dei migranti di tre navi sbarcati in Italia e poi spariti
nel nulla, nel marzo 2011. Altre barche non sappiamo se siano
affondate, ma in quei mesi, con la guerra in Libia in corso, quel
tratto di mare era continuamente osservato dagli innumerevoli mezzi
tecnologici che l’Unione europea e la sua agenzia Frontex
dispiegano per il controllo delle migrazioni. Radar, satelliti,
motovedette, aerei, elicotteri archiviano tutto ciò che vedono».
È
per questo che
i familiari degli scomparsi chiedono all’Unione
europea «la
formazione di una commissione per metterci a disposizione i suoi
saperi, con la partecipazione dei governi italiano e tunisino».
Serve
per dare risposta a madri come Lamya e Mounira, che aspettano
soffrendo nelle case di Tunisi, e alle madri come quella di Sabri che
alcune settimane fa ha detto: «Fino
all’ultimo battito del mio cuore, devo lottare per trovare mio
figlio».