Lui è caporale maggiore capo.
Lei caporale maggiore. Lui
si chiama Romano, lei Ahlame,
un’alpina. Romano Pala è figlio
di un sardo e un’eritrea, ed è arrivato
in Italia a 17 anni, mentre
Ahlame Boufessas è nata a Tripoli da genitori
marocchini ed è nel nostro Paese
da quando ha un anno e mezzo. Sono
due soldati dell’esercito italiano e hanno
un ruolo particolare proprio a Lampedusa.
Conoscono le lingue. Molte, e soprattutto
conoscono le lingue dei profughi
che arrivano sui tristi barconi che
spiaggiano sull’isola. E così spetta a loro
il compito di informare, dare consigli,
consolare gli scampati di quello che sperano
sia un viaggio della speranza. Romano
è sposato e ha due figli, Alessio di 9 anni
e Sabrina di 7. Sa bene che significa
parlare a uomini e donne con figli al seguito,
fuggiti da terre in pieno dramma.
Le prime informazioni utili
Spiega Romano:
«In questo periodo arrivano in prevalenza
dalla Siria. Sono donne sposate con
mariti e figli. Molti di loro hanno, anzi,
avevano, una casa, un lavoro e soldi da
parte, ma fuggono dalla guerra. Anche
poche parole dette nella loro lingua servono
a confortarli e a non farli sentire
sperduti dopo lo sbarco». Romano parla,
oltre all’italiano, inglese, arabo, tigrin,
amarico e farsi.
Il lavoro dei due militari consiste proprio
nel dare quelle informazioni utili
tra il momento dello sbarco e quello
dell’ingresso nel Centro di prima accoglienza
ma, soprattutto, nel far conoscere
i diritti che queste persone hanno:
«Molti fra noi italiani ancora non vogliono
considerare che la maggioranza delle
persone che fugge da questi Paesi non lo
fa per fame, per povertà, ma perché ci sono
situazioni di guerra dove la morte per
loro è quasi certa. Per questo dovremmo
saper accogliere in modo migliore queste
persone. Qui arrivano nuclei familiari
completi». E lo Stato maggiore
dell’Esercito ha inviato a Lampedusa anche
due psicologi di supporto, per favorire
il primo approccio con il nostro Paese.
Mentre Romano si occupa del reparto
maschile del Centro, Ahlame entra in
confidenza con le donne: «Il primo contatto,
quello del dialogo e della comunicazione,
è molto importante per loro. Vedere
le divise militari inizialmente può
rappresentare un problema, ma dopo i
primi momenti di sconcerto, mi accorgo
che si fidano di noi e spesso ci chiedono
informazioni in più rispetto a quelle burocratiche.
Quello che spero è che un
giorno si possano ricordare un po’ anche
di noi, magari quando le cose andranno
meglio. Per tutti».