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venerdì 13 settembre 2024
 
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I lager per migranti in Libia, ecco le prove

21/03/2019  Ne "L'attualità del male" dell'avvocato Maurizio Veglio le verità processuali di quello che accade nei campi di concentramento del regime di Tripoli

L'avvocato Maurizio Veglio.
L'avvocato Maurizio Veglio.

Cosa non sappiamo di quel che accade a centinaia di migliaia di persone sull’altra sponda del Mediterraneo e quanto ancora dobbiamo sapere per convincerci dei crimini orrendi che vengono perpetrati?

Le informazioni sui campi di concentramento in Libia sicuramente non mancano, ma sembrano non essere sufficienti a far fronte all’ondata razzista e xenofoba di fake news che ha invaso l’italia del XXI secolo. Per questa ragione, L'attualità del male (Ed. Seb 27) curato dallo scrittore e avvocato Maurizio Veglio, che sarà presentato dall’autore il 22 marzo a Firenze (presso il Polo delle Scienze sociali , in via delle Pandette 35), ci porta all’interno dell’inferno libico, svelando ogni possibile particolare ancora sconosciuto, per risvegliare le nostre coscienze. 

 In una sentenza il primo racconto corale sui campi di concentramento libici. “Il libro prende vita da una decisione della Corte d'Assise di Milano, che il primo dicembre 2017 certifica la mostruosità dei lager libici e stravolge, ridefinendolo, il vocabolario del grande buco nero post Gheddafi. Ci provano, in una lingua comprensibile a tutti, alcuni giudici togati e popolari, accademici, giuristi. Le parole della giustizia hanno un valore speciale, perché offrono la traduzione giuridica dei fatti storici, cioè la verità processuale.”, spiega lo scrittore.

Emergono allora, dal racconto delle vittime presenti in quell’aula di tribunale, gli orrori che la società italiana sembra non voler vedere, fino a  legittimare e approvare la chiusura dei porti ai profughi che scappano dalla Libia. La sentenza della Corte d'Assise di Milano resterà per lo più fuori dai riflettori dei media “per non ricordare” che la storia del passato e quella del presente si incontrano, dolorosamente,in un accumulo di orrori che non avrebbero dovuto mai più accadere e ancor meno essere legittimati o ignorati dal mondo civilizzato.

Spiega l'autore: “Nel libro racconto come i migranti vengano incarcerati perché privi di documenti. Si tratta di persone sequestrate a scopo di estorsione, vittime di sevizie e abomini. La cosiddetta "polizia che arresta" è il travestimento di gang armate, bande di strada, Asma Boys che popolano gli incubi dei sopravvissuti ad anni di distanza. Ci sono poi gli arabi che "liberano i subsahariani per assumerli" e che invece, nella realtà, li riducono in schiavitù. Sono loro, gli  schiavisti del nostro tempo, i padroni della scacchiera e delle pedine intrappolate in un labirinto di compravendite, cessioni e persino vedita all'asta di uomini e donne”.

Gli “uomini che si imbarcano” diventano bestie recintate, minacciate e pestate, stipate in barconi pericolanti in partenza dalla bocca dell’inferno. Il tutto affidato alla regia della criminalità organizzata transnazionale, autentici imprenditori feudali del XXI secolo. ”I titoli dell’indice della sentenza scrivono il sommario di un’opera horror: i campi di raccolta, le punizioni e le torture, l’assenza di cure mediche, le violenze sessuali, gli omicidi, le cicatrici sui corpi delle parti lese. Il protagonista di questo romanzo-verità, a lungo atteso, è un cittadino somalo, ex-migrante affrancato e – una volta diventato responsabile di un campo di detenzione nei pressi della città di Bani Wa- lid – scopertosi l’aguzzino più crudele di migliaia di propri concittadini. L’apocalisse ha il volto emaciato di 500 sciagurati ammassati in un hangar tra le montagne e il deserto: sorveglianza armata, chiusura notturna senza accesso ai bagni (si urina nel capannone), niente letti, pidocchi dappertutto, cibo scarso, diffusa grave debilitazione.

La trama è atroce quanto banale: chi paga esce, chi non paga rimane all’inferno. Il romanzo-horror di Veglio ricostruisce la storia delle vittime, già all’arrivo nei lager: “Dopo avere sequestrato i cellulari, i carcerieri consentono una telefonata ai familiari, nel corso della quale – per rafforzare la richiesta di denaro – i migranti vengono percossi e torturati, a volte anche violentati. Talvolta le famiglie ricevono le foto o i filmati dei propri cari sanguinanti e umiliati, legati come animali, appesi al soffitto. All’intermediario in patria i familiari pagano il prezzo del viaggio – cioè il riscatto – e con questo il diritto alla libertà e alla vita. Nel campo, infatti, si muore di botte, di scarsa igiene, di disidratazione, di fame, di parto (e almeno in un’occasione muore anche il neonato)”, denuncia l’avvocato dell'Asgi (Associazione Giuridica di Immigrazione) che da diversi anni segue i migranti nelle sedi processuali.

Il ritornello del torturatore: o paghi o muori. “Da qui possono uscire solo due persone: una persona che ha pagato i soldi e una persona che è  morta”, è il ritornello dei carnefici, ripetuti ogni giorno, ad ogni carico di detenuti, ad ogni momento della giornata ai detenuti nel lager. E in effetti si lascia raramente il capannone: ogni tanto qualche uomo – magari di quelli che hanno già pagato una parte della somma – viene portato a lavorare alla costruzione di altri hangar all’interno del perimetro del campo. Restare nella cella è doloroso e uscirne ancora di più". Il libro svella quanto emerso dal racconto delle vittime:  “Più spesso chi viene prelevato dall’interno finisce in Amalia, la stanza delle torture, dove le persone vengono fatte inginocchiare, legate e picchiate. Spesso vengono spogliate, bagnate e ustionate con cavi elettrici, frequentemente sui testicoli. Talvolta i sacchetti di plastica vengono bruciati e sciolti sul corpo dei sequestrati. Si ritorna nell’hangar in uno stato pietoso, coperti di ematomi e ustioni, a volte incoscienti.”

Se dal capannone si sentono le urla, dentro regna il silenzio. L’ordine è di non parlare e chiunque potrebbe trasformarsi in una spia. Quando esce una donna cambia la scenografia e si finisce nella camera privata, la stanza degli stupri. “Una giovane ragazza, minorenne, viene denudata in pubblico, portata nella camera e legata. È infibulata. Il torturatore le divarica le gambe e utilizza uno strumento metallico. La giovane sviene, risvegliandosi più tardi in una pozza di sangue.  Dentro l’hangar è un universo di lacrime e corpi gonfi. Prima di violentare un’altra giovane, l’aguzzino confessa di avere ucciso – appendendoli per il collo – due ragazzi di circa vent’anni, trattenuti al campo da molto tempo perché le famiglie non pagavano. Poche ore dopo i cadaveri dei due vengono trascinati con le corde avvolte intorno al collo fino al centro del capannone, dove rimangono per un quarto d’ora a ricordare a tutti con chi hanno a che fare. Altri due ragazzi, ridotti a pelle e ossa, vengono fatti alzare e colpiti selvaggiamente con spranghe di ferro, fino a sfondarne il torace. I testimoni ricordano che i giovani piangevano mentre venivano portati fuori dal capannone, e dopo avere sentito alcune urla nessuno li ha più visti. Qualche tempo dopo un altro migrante viene mandato a seppellire i corpi, “completamente deturpati dalle percosse e anneriti dalle bruciature”.

Il primo romanzo corale sui moderni campi di concentramento. La saga del torturatore termina con il viaggio a Sabratah, l’imbarco, l’arrivo in Italia e l’arresto a Milano, dove, avvistato nei pressi di un centro di accoglienza, in pochi minuti l’aguzzino viene circondato da una folla ribollente, composta in buona parte da vittime che – senza cedere alla tentazione del linciaggio – richiedono l’intervento delle forze dell’ordine, svelando i corpi marchiati e le cicatrici. “Il primo romanzo corale sui moderni campi di concentramento, sullo sfondo del collasso libico, salva dall’oblio le vittime, altrimenti destinate a sopportarne il peso nuovamente in silenzio. Per restituire la voce al tacito esercito di emissari della sofferenza (Malkki), la Corte di assise accetta le sfide del dialogo – la distanza culturale, l’incomunicabilità, gli intraducibili – attraverso gli strumenti del diritto: l’approfondito ascolto delle persone offese, la mediazione linguistica, la consulenza di una docente di antropologia delle immigrazioni.”, spiega l’autore. Così continua Veglio: “La sentenza costituisce a sua volta il più grande atto di accusa contro la scelta di esternalizzare la brutalità (Lemberg-Pedersen) attraverso lo scellerato accordo con la Libia. Quella stessa politica che applica al genere umano il numero chiuso -  secondo la folgorante espressione di Sartre nelle pagine incendiarie che introducono I Dannati della terra di Fanon (Einaudi, 2007). 

L'autore termina con un ammonimento: "Il destino dei migranti “salvati” per mano della marina libica, sospettata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu di sequestri in mare, pestaggi e rapine, nonché di attività di sfruttamento lavorativo e violenze sessuali, è oggi noto. Eppure è ancora l’ignoto – l’estraneo, lo straniero, il corpo femminile, la pelle scura, le lingue straniere, le divinità proteiformi – a turbare il sonno degli uomini-bambini. E’ora di svegliarsi.

IL LIBRO

L'attualità del male. La Libia dei "Lager" è verità processuale di Maurizio Veglio su Sanpaolostore.it

Mentre il Paese e i suoi governi si vantano della riduzione drastica degli sbarchi di profughi, le corti d'assise italiane riconoscono le atrocità che accadono nei Lager in Libia 

 
 
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