In Francia, sono un caso cinematografico. E ora rischiano di diventarlo anche in Italia. Dopo aver conquistato il Festival di Cannes con la loro spiritualità intrisa di calore umano, sette monaci trappisti sono in testa da un mese al box office francese (con oltre due milioni emezzo di spettatori) sbaragliando perfino la concorrenza della diva Angelina Jolie. O meglio, a conquistare prima la Croisette e poi le vette del botteghino sono state le loro storie, i timori, le parole, il modo assolutamente naturale eppure sublime con cui hanno dato testimonianza di fede.
Perché, purtroppo, quei monaci francesi non ci sono più: li hanno trovati decapitati nel monastero di Tibhirine, sulle montagne algerine dell’Atlante. Massacrati, nel maggio 1996, non si sa bene da chi. Forse dal Gia, il gruppo islamico armato che allora alimentava la guerra civile. Forse da un elicottero militare algerino, che avrebbe sparato scambiando i frati rapiti per guerriglieri (di conseguenza, decapitazione e sparizione dei corpi sarebbero state solo un macabro depistaggio).
Scelta vincente del regista Xavier Beauvois quella di non descrivere il martirio bensì di raccontare le settimane precedenti, quelle in cui i sette monaci decidono di non abbandonare le attività che da anni svolgono in aiuto della popolazione musulmana, ideale ponte tra religioni, malgrado l’incalzare delle violenze e delle minacce. Uomini di Dio (è il titolo scelto dalla Lucky Red per la distribuzione italiana anche se quello originale, Des Hommes et des Dieux, è assai più profondo e sfaccettato) esce in questi giorni nei cinema italiani dopo aver vinto il Grand Prix a Cannes. Ma non è un film sul fanatismo religioso, piuttosto il racconto di una scelta sofferta, difficile, motivata da ciascuno con un personale percorso di fede.
«Sinceramente, non m’interessa l’inchiesta tuttora aperta anche se, sulla base delle testimonianze e della documentazione che ho avuto modo di raccogliere per la preparazione del film, propendo per l’errore dei soldati algerini », spiega Xavier Beauvois, 43 anni, fino a oggi più attore che regista. «Il cuore del film è la forza morale di quei monaci, alcuni anziani e malati, che si trovarono di fronte al dilemma se partire o restare. In una situazione di tensione, tra esercito e fondamentalisti ai ferri corti, tra massacri e minacce, loro rimasero. Per testimoniare la parola di Dio, che in quel momento si fece sì per loro carne e sangue. In una società come quella di oggi, in cui nessuno vuol più rinunciare a nulla, l’idea del sacrificio è qualcosa che disturba».
Ecco, la forza del messaggio è proprio in questo voler narrare la vita e non la morte. Per due ore lo spettatore “vive” dentro il piccolo monastero sperduto tra i monti dell’Algeria assieme ai frati benedettini che pregano e lavorano, fanno il miele e curano le ferite di chi bussa alla loro porta. Anche se si tratta di terroristi, perché Dio non fa distinzioni. Una quotidiana scelta di pace e tolleranza piuttosto che la partigianeria. Le umili incombenze, le titubanze, le paure di monaci che senza essere samurai del Signore restano però saldi nelle loro convinzioni e nella fede.
«Non c’è sesso, non c’è violenza esibita. I cristiani non possono che gioire. E i non credenti, gli agnostici parleranno del senso dato alla vita da questi uomini in saio», commenta Libération, giornale laico per eccellenza del panorama editoriale francese. E aggiunge: «È come se questa pellicola permettesse a ognuno di trovare una risposta ai propri dubbi e alle proprie domande. Proprio come quando si ascolta il canto gregoriano per ritrovare un po’ della propria spiritualità».
La decisione di non mostrare la morte dei frati è venuta in modo naturale. «Per rispetto ai parenti delle vittime. Le loro vite fatte di dialogo e compassione sono state la migliore risposta a qualsiasi violenza», spiega Beauvois. «Difficile trovare persone capaci di amare così tanto. Viviamo in una società fondata sulla velocità, ma credo che la gente sia abbastanza intelligente da fare uno sforzo per capire».
Beauvois non è credente praticante: «A volte la Chiesa mi snerva», ammette. «Il priore Christian snervava a sua volta la gerarchia, che lo reputava precipitoso perché si accostava all’islam. Aveva ragione lui. Quei monaci erano liberi, uomini uguali tra loro e rispetto ai loro vicini. Oggi, in Francia, siamo sempre meno liberi, meno uguali, meno fratelli».