«È molto bello! Mi è piaciuto moltissimo!
È come un’icona: ogni volta
che la osservi, scopri dettagli che
avevi trascurato e che rivelano significati
nuovi». Fratel Jean Pierre Schumacher non
ha dubbi. Ha davvero amato il film Uomini
di Dio, che tanto successo ha avuto in Francia
(più di tre milioni di spettatori) ed è stato distribuito
in una cinquantina di Paesi nel
mondo. Fratel Jean Pierre è l’ultimo sopravvissuto
della strage di sette monaci trappisti,
rapiti nel marzo del 1996 nel monastero di Tibhirine
in Algeria, e uccisi il 21 maggio. La loro
vicenda umana e spirituale viene mirabilmente
raccontata nel film di Xavier Beauvois,
vincitore del Gran Premio della Giuria
lo scorso anno a Cannes e di numerosi César,
gli Oscar del cinema francese (miglior film,
migliore attore non protagonista, miglior fotografia).
Una vicenda che segnò duramente
la piccola comunità cattolica d’Algeria, ma
che ha lasciato un messaggio positivo di fratellanza,
dialogo e fedeltà: fedeltà a Dio e al
Vangelo, ma anche ai fratelli musulmani,
con cui i monaci avevano scelto di vivere.
Fratel Jean Pierre, che oggi ha 87 anni e
vive nel monastero trappista di Midelt, in
Marocco, era uno di loro. È scampato per miracolo
al rapimento e quindi al massacro dei
sette confratelli. L’altro, fratel Amédée, che
pure era sopravvissuto alla strage, è deceduto
nel 2008.
Oggi come ieri, è ancora lui, Jean Pierre, ad
aprire la porta del monastero. Per oltre
trent’anni presente a Tibhirine, era stato a
lungo il portinaio di quella comunità monastica
che si era insediata sui contrafforti dell’Atlante
algerino sin dal 1938. Ma ancora oggi,
qui a Midelt, sul Medio Atlante marocchino,
dove si è trasferito immediatamente dopo
il rapimento, continua a fare da portinaio.
«È per questa ragione che quella notte mi
hanno risparmiato», racconta con grande pacatezza
e molta serenità. «Perché la mia camera
in portineria stava un po’ in disparte rispetto
alla clausura. E poi i terroristi avevano
avuto l’informazione che eravamo sette. Ma
quella notte eravamo nove».
Memoria lucidissima, gran voglia di raccontare,
fratel Jean Pierre ha visto il film
tra l’apprensione dei suoi confratelli di oggi.
«Eravamo un po’ in ansia prima di vedere
la pellicola», ammette fratel Jean Pierre Flachaire,
priore del monastero di Midelt, «Jean
Pierre ha vissuto quegli eventi ed è rappresentato
nel film. È stato molto colpito, ma
non ha detto una sola parola di critica, anche
se ovviamente ci sono delle scene che non
corrispondono esattamente alla realtà».
«Come quando fratel Amédée si rifugia sotto
il letto! », rilancia sorridendo il monaco sopravvissuto.
«Oh no, non è possibile!». Lui e
Amédée erano molto legati. Così come fratel
Luc, il medico. Il senso della loro vita e quello
della comunità sono ben suggeriti nel
film. Il priore di Midelt lo ha già visto sette
volte. Fratel José Luis, spagnolo, l’altro membro
di questa piccola comunità, è andato a
presentarlo lo scorso gennaio a Madrid. «Ho
avuto reazioni molto positive, anche se ci sono
persone che non riescono a capire la possibilità
di una relazione così fraterna tra i monaci
e la popolazione musulmana. Ma in generale,
che accoglienza straordinaria!».
«Questo film mi ha profondamente toccato
», confida fratel Jean Pierre. «Di quegli anni
a Tibhirine conservo soprattutto il ricordo
di una piccola comunità fraterna, il lavoro in
comune, gli uffici... È stata una grande emozione
rivivere tutto questo nel film, che trasmette
un messaggio vero, anche se i dettagli
del racconto non sono tutti esatti. Ma
questo non ha importanza. L’essenziale è che
la pellicola restituisca in maniera autentica il
senso della nostra presenza lì. E poi, in tutto
il film, c’è questa presenza di Dio e questo abbandono
a lui, che dice molto bene l’essenza
della nostra vita monastica».
Il regista è venuto in visita al monastero di
Midelt con l’attore che ha interpretato Jean
Pierre. Hanno scambiato le loro impressioni.
Momenti anche commoventi, ricordano i monaci.
In seguito, la pellicola è uscita in un cinema
a Casablanca e i Centri culturali francesi
l’hanno riproposta nelle principali città
del Marocco, Paese in cui è stato girato.
Tioumliline non è molto distante dal monastero
di Midelt. È qui che è stato realizzato
Uomini di Dio. Vecchio convento benedettino,
oggi abbandonato, è affiancato dalle abitazioni
di alcune famiglie locali.
Sukeina, una bambinetta gentile e vivace,
vive lì e gioca all’entrata del chiostro. Si ha
l’impressione di conoscerla. In effetti, è proprio
la bimba con una bruciatura alla testa
che viene curata da fratel Luc all’inizio del
film. L’incanto è assicurato: fratel Jean Pierre
prima, questo monastero e questa bimba
dopo… Realtà e racconto si mescolano in
questo luogo così carico di memoria e di suggestioni.
Le stesse che il film riesce a trasmettere
e a fissare nel cuore di chi lo vede.
Foto: Parallelozero.
Pure un mercato solitamente prevedibile
tipo quello della pellicola a volte
riserva piacevoli sorprese. Come era
già successo per Il grande silenzio del
tedesco Philip Gröning, che raccontava la vita
dei monaci della Grande Chartreuse sulle
Alpi francesi del Delfinato, anche Uomini di
Dio (ma l’originale Des Hommes et des Dieux
rende meglio l’idea) è stato accolto da un caloroso
successo di pubblico (oltre tre milioni
di spettatori in Francia) dopo il Gran Premio
della Giuria del Festival di Cannes. Ne è autore
il quarantaquattrenne Xavier Beauvois,
che ricostruisce la tragedia che si consumò a
Tibhirine nel 1996, dove sette trappisti cistercensi
di un monastero sulle montagne
dell’Atlante algerino furono rapiti da un
gruppo di integralisti islamici e poi barbaramente
trucidati.
Il film rievoca gli ultimi mesi vissuti dalla
comunità: la preghiera, lo studio, il lavoro,
l’ambulatorio medico aperto a tutti, la vita
sociale e perfettamente integrata con quella
della popolazione musulmana, con i monaci
che partecipano alle attività lavorative della
gente del posto, alle feste, alle ricorrenze e si
occupano delle quotidiane necessità sanitarie
gestendo un ambulatorio medico. Ma l’atmosfera
di pace di Tibhirine (che in arabo significa
“giardino”) è interrotta da allarmanti
notizie. Un giorno alcuni lavoratori croati sono
massacrati da esponenti del fondamentalismo
islamico e altri attentati del genere
spargono il panico fra gli abitanti della regione.
Nel frattempo l’esercito algerino, con metodi
spicci e sbrigativi, vorrebbe imporre ai
monaci una protezione armata. I fratelli la rifiutano,
ma ben presto altri uomini in armi
si presentano al monastero.
Sono integralisti islamici, gli stessi che
hanno rivendicato la responsabilità del massacro
dei lavoratori croati e che ora, con le armi
spianate, pretendono l’assistenza dei monaci
nel loro covo per curare i terroristi feriti.
I religiosi riescono a resistere alle minacce e
gli assalitori se ne vanno, ma lo spavento lasciato
dall’episodio è grande. Che fare? Raccogliere
il perentorio invito dei guerriglieri
e tornare in Francia oppure restare e, sfidando
la morte, continuare la missione?
I religiosi sono divisi. Se il fratello medico (ruolo in cui figura uno straordinario Michael Lonsdale) risponde: «Non ho paura di niente, nemmeno della morte. Sono un uomo libero», frère Christophe (Olivier Rabourdin), il più giovane del gruppo, si chiede perplesso: «Morire qui, ora, è veramente utile?». La risposta la fornisce il priore (un intenso Lambert Wilson): «La tua vita l’hai già data offrendola a Cristo».
Le parole delle litanie intonate nella cappella
ribadiscono il concetto, e il Vangelo
scioglie ogni dubbio: «Chi cercherà di salvare
la sua vita la perderà». Parole che annienteranno
le riserve mentali del giovane Christophe,
al punto di fargli dire: «Che Dio apparecchi
qui la sua tavola, amici e nemici».
I monaci di Uomini di Dio non sono eroi e
tanto meno fanatici invasati assetati di martirio,
ma uomini fra gli uomini, fragili e preoccupati
di fronte a eventi più grandi di loro,
sensibili all’ansia e alla paura.
Severo senza essere pedante, asciutto
senza essere noioso, rigoroso senza essere
ingessato, Uomini di Dio è un film che trascina
e appassiona per il modo in cui, di fronte
al grave pericolo che li minaccia, i monaci
cercano di dare un senso alla propria vita e
testimoniare la coerenza del proprio ruolo.
Umano prima ancora che religioso. Non testardaggine,
non orgoglio e neppure superbia,
ma scelta fondamentale di vita in nome
di identità, dignità e responsabilità.
C’è una scena molto bella
in cui, di fronte alle
minacce dei terroristi
islamici, i religiosi sono
divisi: la diversità di
opinioni è alimentata
anche dalle parole di Carlo
Carretto (che nel 1952
aveva lasciato la
presidenza della Gioventù
italiana di Azione cattolica
per entrare nella comunità
dei Piccoli fratelli di
Charles de Foucauld e
ritirarsi in preghiera a
El-Abiodh-Sidi-Cheikh, nel
deserto algerino) che i
monaci leggono e
discutono: «Perché la fede
è così amara? Come può
Dio restare così a lungo in
silenzio?».
A queste
domande risponde il più
giovane dei religiosi,
fratel Christophe,
attraverso le pagine
del suo diario che ha per
titolo Il soffio del dono
(pubblicato dalle Edizioni
Messaggero, Padova).
Fratel Christophe era un
ex sessantottino, inquieto
e turbolento, che aveva
trovato la pace con il saio.
In questo diario figurano
anche poesie e alcuni versi
rispondono con un atto di
fede in Gesù Cristo alle
preoccupazioni per la
morte a cui andrà incontro:
«Io sono suo e seguo le sue
orme; vado verso la mia
piena verità pasquale… Vi
dico, in piena verità, tutto
va bene. La fiamma si è
piegata, la luce si è
inclinata… Posso morire.
Eccomi qui».