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domenica 18 maggio 2025
 
 

Tibhirine, l'ultimo sopravvissuto

30/06/2011  La testimonianza di Fratel Jean Pierre, scampato alla strage del 1996. Il commovente film dedicato ai monaci di Tibhirine.

«È molto bello! Mi è piaciuto moltissimo! È come un’icona: ogni volta che la osservi, scopri dettagli che avevi trascurato e che rivelano significati nuovi». Fratel Jean Pierre Schumacher non ha dubbi. Ha davvero amato il film Uomini di Dio, che tanto successo ha avuto in Francia (più di tre milioni di spettatori) ed è stato distribuito in una cinquantina di Paesi nel mondo. Fratel Jean Pierre è l’ultimo sopravvissuto della strage di sette monaci trappisti, rapiti nel marzo del 1996 nel monastero di Tibhirine in Algeria, e uccisi il 21 maggio. La loro vicenda umana e spirituale viene mirabilmente raccontata nel film di Xavier Beauvois, vincitore del Gran Premio della Giuria lo scorso anno a Cannes e di numerosi César, gli Oscar del cinema francese (miglior film, migliore attore non protagonista, miglior fotografia). Una vicenda che segnò duramente la piccola comunità cattolica d’Algeria, ma che ha lasciato un messaggio positivo di fratellanza, dialogo e fedeltà: fedeltà a Dio e al Vangelo, ma anche ai fratelli musulmani, con cui i monaci avevano scelto di vivere.

Fratel Jean Pierre, che oggi ha 87 anni e vive nel monastero trappista di Midelt, in Marocco, era uno di loro. È scampato per miracolo al rapimento e quindi al massacro dei sette confratelli. L’altro, fratel Amédée, che pure era sopravvissuto alla strage, è deceduto nel 2008. Oggi come ieri, è ancora lui, Jean Pierre, ad aprire la porta del monastero. Per oltre trent’anni presente a Tibhirine, era stato a lungo il portinaio di quella comunità monastica che si era insediata sui contrafforti dell’Atlante algerino sin dal 1938. Ma ancora oggi, qui a Midelt, sul Medio Atlante marocchino, dove si è trasferito immediatamente dopo il rapimento, continua a fare da portinaio. «È per questa ragione che quella notte mi hanno risparmiato», racconta con grande pacatezza e molta serenità. «Perché la mia camera in portineria stava un po’ in disparte rispetto alla clausura. E poi i terroristi avevano avuto l’informazione che eravamo sette. Ma quella notte eravamo nove».

Memoria lucidissima, gran voglia di raccontare, fratel Jean Pierre ha visto il film tra l’apprensione dei suoi confratelli di oggi. «Eravamo un po’ in ansia prima di vedere la pellicola», ammette fratel Jean Pierre Flachaire, priore del monastero di Midelt, «Jean Pierre ha vissuto quegli eventi ed è rappresentato nel film. È stato molto colpito, ma non ha detto una sola parola di critica, anche se ovviamente ci sono delle scene che non corrispondono esattamente alla realtà».


«Come quando fratel Amédée si rifugia sotto il letto! », rilancia sorridendo il monaco sopravvissuto. «Oh no, non è possibile!». Lui e Amédée erano molto legati. Così come fratel Luc, il medico. Il senso della loro vita e quello della comunità sono ben suggeriti nel film. Il priore di Midelt lo ha già visto sette volte. Fratel José Luis, spagnolo, l’altro membro di questa piccola comunità, è andato a presentarlo lo scorso gennaio a Madrid. «Ho avuto reazioni molto positive, anche se ci sono persone che non riescono a capire la possibilità di una relazione così fraterna tra i monaci e la popolazione musulmana. Ma in generale, che accoglienza straordinaria!».

«Questo film mi ha profondamente toccato », confida fratel Jean Pierre. «Di quegli anni a Tibhirine conservo soprattutto il ricordo di una piccola comunità fraterna, il lavoro in comune, gli uffici... È stata una grande emozione rivivere tutto questo nel film, che trasmette un messaggio vero, anche se i dettagli del racconto non sono tutti esatti. Ma questo non ha importanza. L’essenziale è che la pellicola restituisca in maniera autentica il senso della nostra presenza lì. E poi, in tutto il film, c’è questa presenza di Dio e questo abbandono a lui, che dice molto bene l’essenza della nostra vita monastica».

Il regista è venuto in visita al monastero di Midelt con l’attore che ha interpretato Jean Pierre. Hanno scambiato le loro impressioni. Momenti anche commoventi, ricordano i monaci. In seguito, la pellicola è uscita in un cinema a Casablanca e i Centri culturali francesi l’hanno riproposta nelle principali città del Marocco, Paese in cui è stato girato.

Tioumliline non è molto distante dal monastero di Midelt. È qui che è stato realizzato Uomini di Dio. Vecchio convento benedettino, oggi abbandonato, è affiancato dalle abitazioni di alcune famiglie locali. Sukeina, una bambinetta gentile e vivace, vive lì e gioca all’entrata del chiostro. Si ha l’impressione di conoscerla. In effetti, è proprio la bimba con una bruciatura alla testa che viene curata da fratel Luc all’inizio del film. L’incanto è assicurato: fratel Jean Pierre prima, questo monastero e questa bimba dopo… Realtà e racconto si mescolano in questo luogo così carico di memoria e di suggestioni. Le stesse che il film riesce a trasmettere e a fissare nel cuore di chi lo vede.

Foto: Parallelozero.

Pure un mercato solitamente prevedibile tipo quello della pellicola a volte riserva piacevoli sorprese. Come era già successo per Il grande silenzio del tedesco Philip Gröning, che raccontava la vita dei monaci della Grande Chartreuse sulle Alpi francesi del Delfinato, anche Uomini di Dio (ma l’originale Des Hommes et des Dieux rende meglio l’idea) è stato accolto da un caloroso successo di pubblico (oltre tre milioni di spettatori in Francia) dopo il Gran Premio della Giuria del Festival di Cannes. Ne è autore il quarantaquattrenne Xavier Beauvois, che ricostruisce la tragedia che si consumò a Tibhirine nel 1996, dove sette trappisti cistercensi di un monastero sulle montagne dell’Atlante algerino furono rapiti da un gruppo di integralisti islamici e poi barbaramente trucidati.

Il film rievoca gli ultimi mesi vissuti dalla comunità: la preghiera, lo studio, il lavoro, l’ambulatorio medico aperto a tutti, la vita sociale e perfettamente integrata con quella della popolazione musulmana, con i monaci che partecipano alle attività lavorative della gente del posto, alle feste, alle ricorrenze e si occupano delle quotidiane necessità sanitarie gestendo un ambulatorio medico. Ma l’atmosfera di pace di Tibhirine (che in arabo significa “giardino”) è interrotta da allarmanti notizie. Un giorno alcuni lavoratori croati sono massacrati da esponenti del fondamentalismo islamico e altri attentati del genere spargono il panico fra gli abitanti della regione. Nel frattempo l’esercito algerino, con metodi spicci e sbrigativi, vorrebbe imporre ai monaci una protezione armata. I fratelli la rifiutano, ma ben presto altri uomini in armi si presentano al monastero.

Sono integralisti islamici, gli stessi che hanno rivendicato la responsabilità del massacro dei lavoratori croati e che ora, con le armi spianate, pretendono l’assistenza dei monaci nel loro covo per curare i terroristi feriti. I religiosi riescono a resistere alle minacce e gli assalitori se ne vanno, ma lo spavento lasciato dall’episodio è grande. Che fare? Raccogliere il perentorio invito dei guerriglieri e tornare in Francia oppure restare e, sfidando la morte, continuare la missione?


I religiosi sono divisi. Se il fratello medico (ruolo in cui figura uno straordinario Michael Lonsdale) risponde: «Non ho paura di niente, nemmeno della morte. Sono un uomo libero», frère Christophe (Olivier Rabourdin), il più giovane del gruppo, si chiede perplesso: «Morire qui, ora, è veramente utile?». La risposta la fornisce il priore (un intenso Lambert Wilson): «La tua vita l’hai già data offrendola a Cristo».

Le parole delle litanie intonate nella cappella ribadiscono il concetto, e il Vangelo scioglie ogni dubbio: «Chi cercherà di salvare la sua vita la perderà». Parole che annienteranno le riserve mentali del giovane Christophe, al punto di fargli dire: «Che Dio apparecchi qui la sua tavola, amici e nemici».
I monaci di Uomini di Dio non sono eroi e tanto meno fanatici invasati assetati di martirio, ma uomini fra gli uomini, fragili e preoccupati di fronte a eventi più grandi di loro, sensibili all’ansia e alla paura.

Severo senza essere pedante, asciutto senza essere noioso, rigoroso senza essere ingessato, Uomini di Dio è un film che trascina e appassiona per il modo in cui, di fronte al grave pericolo che li minaccia, i monaci cercano di dare un senso alla propria vita e testimoniare la coerenza del proprio ruolo. Umano prima ancora che religioso. Non testardaggine, non orgoglio e neppure superbia, ma scelta fondamentale di vita in nome di identità, dignità e responsabilità.

C’è una scena molto bella in cui, di fronte alle minacce dei terroristi islamici, i religiosi sono divisi: la diversità di opinioni è alimentata anche dalle parole di Carlo Carretto (che nel 1952 aveva lasciato la presidenza della Gioventù italiana di Azione cattolica per entrare nella comunità dei Piccoli fratelli di Charles de Foucauld e ritirarsi in preghiera a El-Abiodh-Sidi-Cheikh, nel deserto algerino) che i monaci leggono e discutono: «Perché la fede è così amara? Come può Dio restare così a lungo in silenzio?».

A queste domande risponde il più giovane dei religiosi, fratel Christophe, attraverso le pagine del suo diario che ha per titolo Il soffio del dono (pubblicato dalle Edizioni Messaggero, Padova). Fratel Christophe era un ex sessantottino, inquieto e turbolento, che aveva trovato la pace con il saio. In questo diario figurano anche poesie e alcuni versi rispondono con un atto di fede in Gesù Cristo alle preoccupazioni per la morte a cui andrà incontro: «Io sono suo e seguo le sue orme; vado verso la mia piena verità pasquale… Vi dico, in piena verità, tutto va bene. La fiamma si è piegata, la luce si è inclinata… Posso morire. Eccomi qui».

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