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martedì 18 novembre 2025
 
Testimonianza
 

«I miei giorni tra i profughi di Idomeni»

08/05/2016  Valerio Mogini, medico volontario della Croce Rossa Italiana, è stato nel grande campo sorto alla frontiera tra Grecia e Macedonia. Lì circa 9.000 persone vivono nelle tende, in condizioni precarie, e sognano la Germania.

A Idomeni, alla frontiera fra Grecia e Macedonia, l’Europa mostra il suo volto più brutto il suo volto più bello. Il primo è quello dell’Europa che chiude la frontiera con il filo spinato, i soldati e i mezzi blindati. Il volto buono è quello dell’Europa che manda decine di volontari ad accogliere e assistere i rifugiati in fuga dagli orrori della guerra. Si tratta di medici, infermieri, operatori umanitari, anche animatori (come i clown), perché il campo è pieno di bambini che hanno diritto a giocare. Tra questi volontari c’è Valerio Mogini, 28 anni, romano, un medico della Croce Rossa Italiana che è appena tornato da Idomeni dopo esserci rimasto otto giorni assieme a due infermiere volontarie della Cri, Sorella Tosolini e Sorella Germani.

«Il campo di Idomeni è pieno di giovani europei che aiutano i rifugiati e, grazie al loro impegno generoso, queste persone non percepiscono l’Europa che li ostacola. Nonostante tutto, sono fiduciosi», dice Mogini.

Mogini, come descriverebbe il campo di Idomeni?

«Appena arrivato, gli altri volontari e i colleghi della Croce Rossa Ellenica me lo hanno descritto come un campo anarchico, nel senso che è nato spontaneamente a ridosso della frontiera tra Grecia e Macedonia. Si tratta quindi di un campo non strutturato, sorto sulla nuda terra. Se piove c’è fango e con il sole c’è la polvere. All’inizio c’erano solo un migliaio di persone, ma quando le autorità macedone hanno chiuso le frontiere il campo ha accolto fino a 12.000 persone. La scorsa settimana, quando mi trovavo lì, si stimavano circa 9.000 presenze»

Le persone nel campo da dove arrivano?

«La maggior parte di loro sono siriani. Ho incontrato anche diversi iracheni, già fuggiti dalla guerra in Iraq, che si erano rifugiati in Siria e poi sono dovuti nuovamente fuggire per i bombardamenti. Ho visto anche qualche afghano e pakistano. Ci sono molte famiglie, molte donne incinte, molte donne nella fase di allattamento, tanti bambini».

Dal punto di vista sanitario che situazione ha trovato?

«Le persone nel campo di Idomeni ormai hanno superato la fase dell’emergenza segnata dalle fatiche e dai rischi del viaggio. Ora si trovano alle prese con malattie peggiorate nel campo e create dal campo. Abbiamo dovuto trattare una marea di tonsilliti, batteriche e non, congiuntiviti dovute alla polvere che si alzava da terra, crisi asmatiche provocate dai pollini e peggiorate dalla polvere. Ma la permanenza nel campo crea anche molti problemi psicologici e psichici. Ci sono bambini di 6-7 anni che soffrono di insonnia, altri che sono tornati a farsi la pipì addosso. L’ansia e la paura fanno soffrire psicologicamente un po’ tutti, adulti e bambini».

Riuscite a curare tutti? Quante persone ha visitato in media ogni giorno?

«Le cure essenziali, di base, sono garantite. Per fortuna nel campo sono presenti i volontari e il personale sanitario di molte Ong. In media, abbiamo visitato un centinaio di persone al giorno, ma quando il campo era più affollato i mie colleghi ne visitavano anche il doppio».

I rifugiati mangiano abbastanza? C’è cibo per tutti?

Il cibo viene distribuito dai volontari, ma le file sono molto lunghe e durano fino a due o tre ore. L’acqua è abbastanza razionata e il cibo è di qualità scadente, poco differenziato, con poche proteine e molto riso e pane. Diversi bambini cominciano a mostrare segni di sofferenza nel loro sviluppo».

I rifugiati dove vogliono andare?

«Vogliono passare la frontiera con la Macedonia e poi andare in Germania. Ma in realtà molti non sanno neppure che cosa sia la Germania e dove sia realmente. Per loro la Germania è soprattutto un concetto, un posto dove si sta meglio, dove magari fa anche più caldo di dove stanno adesso. Io ho parlato con due ragazze irachene di 19 anni che hanno passato la vita nei campi profughi. Mi hanno detto che vogliono andare in qualsiasi posto, basta che non ci sia la guerra».

Passare in Macedonia è impossibile?

«Sì, perché c’è un doppio filo spinato e in mezzo una striscia di terra presidiata da mezzi blindati e militari. Ogni tanto qualcuno riesce a passare, ma viene rimandato indietro, in modo anche non troppo gentile».

Il campo di Idomeni sarà smantellato?

«È da mesi che le autorità greche vorrebbero trasferire i rifugiati in altri campi organizzati, ma loro non vogliono andarsene. Prima di tutto perché non vogliono esser registrati, poi perché nei campi istituzionali i rifugiati avrebbero ridotte possibilità di movimento. In ogni caso, a Idomeni i rifugiati vedono già la frontiera, si sentono vicini al traguardo e non vogliono spostarsi anche se la frontiera resta chiusa».

Che cosa le ha lasciato questa esperienza?

«Il piacere di essere un medico in azione, sul campo, che si affida ai suoi occhi, alle sue mani, alle sue sensazioni. Troppo spesso invece questa professione ti costringe a essere un tecnico che si destreggia fra mille protocolli».

Di recente le bombe americane hanno colpito un ospedale a Kunduz, in Afghanistan. Altre bombe hanno ucciso medici e pazienti nei conflitti in corso in Yemen e in Siria. Non le sembra folle che ormai anche voi medici siate a rischio nelle zone di guerra?

«Un mondo che non ha più rispetto per i luoghi di cura non ha più rispetto di niente, decide dimettere a rischio anche se stesso, violando quei principi che erano stati affermati proprio dalla Croce Rossa. Ma le bombe sugli ospedali non fermeranno chi vuole muoversi e andare sul campo per aiutare chi soffre».

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