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mercoledì 16 ottobre 2024
 
LA MAPPA DELLA VERGOGNA
 

Vietato passare. Quando la globalizzazione sbatte contro un muro

16/09/2017  Paure ed emarginazione: l'ultimo rapporto della Caritas fa il punto sulle barriere che, nel mondo, cementificano i confini. E che rendono meno umano il vivere dei popoli

Quando giunsero dalla Germania le immagini del muro che si andava sgretolando e di migliaia di tedeschi del l’Ovest e dell’Est che si abbracciavano esultanti sembrava che l’umanità fosse giunta alla fine di un incubo. Eppure sono bastati appena 28 anni per fare un bilancio tutt’altro che positivo dell’attitudine dei popoli alla segregazione. L’ultimo Dossier Caritas, "All’ombra del muro”, racconta le tante barriere che ancora esistono nel mondo. E quelle che ancora si vorrebbero costruire. E se in quel 1989 in cui si riunificava Berlino, si contavano quindici muri a carattere repressivo-difensivo «tra cui quello di Gorizia, che divideva la città in due segnando il confine tra la Jugoslavia di Tito e l’Italia della Nato», ricorda il dossier, «attualmente l’elenco arriva a enumerare oltre sessanta barriere» che interessano 67 Stati. Ne troviamo 12 in Africa, 2 in America, 36 in Asia, 16 in Europa, 14 di queste barriere sono databili a partire dal 2013, quindi relativamente recenti.

Dall’Ungheria alla Bulgaria, dalle due Coree alla Cisgiordania, dall’Arabia Saudita all’India fino al muro di Trump al confine con il Messico, «i Paesi si blindano per arginare i migranti e proteggersi dal terrorismo. Globalizzazione e guerre hanno messo in movimento milioni di esseri umani, inasprendo i termini della convivenza collettiva, diffondendo paura e insicurezza.»

I muri che si costruiscono, spiegano ancora in Caritas, sono essenzialmente di due tipi: quelli a carattere anti flussi migratori, nati per proteggere gli Stati sovrani dalle invasioni delle nuove “orde barbariche”, e le barriere innalzate contro popoli nemici aventi lo scopo di tutelare il proprio territorio da guerre e terrorismo portati da popolazioni limitrofe per motivi politici, economici, religiosi.

Emblematico il caso del Sudafrica a Pretoria, quando, nello scorso mese di giugno. Il sindaco aveva proposto la costruzione di un muro per separare due comunità, dopo le tensioni tra gli abitanti della ricca zona residenziale di Mamelodi e quelli della township (baraccopoli senza servizi di base) chiamata Mountain View2. Un muro costruito per separare i ricchi dai poveri.

E se il confine più trafficato resta quello tra Stati Uniti e Messico, con 350 milioni di attraversamenti legali ogni anno, e con una spesa Usa di 132 miliardi di dollari per rafforzarne, inutilmente, la sicurezza, uno dei più emblematici è, invece, quello di Israele.  Completamente circondato da barriere che la isolano da Libano, Egitto, Siria e Giordania, il piccolo Stato ha recintato se stesso anche all’interno con le barriere della Cisgiordania e di Gaza.  Secondo Netanyahu, ricorda il dossier della Caritas, Israele, infatti, «è una villa nella giungla» circondata da «bestie feroci» e l’unica soluzione per difendere il Paese è chiuderla in una grande gabbia. Cemento armato, reticolati e mine anti-uomo. Un progetto miliardario per «difendere Israele dal Medio Oriente così come è oggi e così come potrebbe diventare in futuro».

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