Anna Landi viene ogni terza domenica del mese con la figlia e il marito Guelfo, e prepara dai quatto ai cinque chili di pasta che arrivano ancora tiepidi, e spesso anche un ciambellone. Saverio, il poliziotto, porta le bibite: tè, acqua e succhi di frutta. Francesca Cordella, giovane insegnante della scuola dell’infanzia, questa volta ha con sé dieci cestini di panini assortiti, con un frutto e una merendina.
Giovanni Moriccioni, detto Giannino, con la moglie Nadia e con Daniele Scavotto, 33 anni, coordinano il gruppo e organizzano i pasti, compresa la suddivisione degli incarichi: chi porta i piatti di plastica e le posate, chi cucina e chi si occupa del trasporto del cibo. E poi ci sono tutti gli altri, volontari saltuari o sempre presenti: una volta al mese si attivano in questa rete di solidarietà nata per servire (e preparare) un pasto ai meno fortunati che vivono nella capitale.
INTERPELLATI DALLA POVERTÀ
Siamo in via Marsala all’altezza del civico 39, all’uscita della stazione Termini, una delle più grandi d’Italia. Qui, una notte dopo l’altra, le associazioni di volontariato vengono a servire i pasti al popolo dei senza fissa dimora, dei migranti respinti alle frontiere e dei poveri della città.
Il gruppo che vi stiamo raccontando si chiama Il pozzo di Giacobbe ed è nato attorno alla parrocchia di Santa Francesca Romana all’Ardeatino, nella zona sud della città, dove vive Giannino, “attivista” parrocchiale da molti anni. «All’inizio, nel 2013, eravamo poche persone», racconta Giovanni. «Arrivavano moltissimi migranti, la povertà era sempre più pressante e vicina a noi. Sentivamo l’esigenza di aiutare i meno fortunati,così ci siamo messi in contatto con alcune persone del gruppo francescano di Roma e di Tivoli e abbiamo cominciato a servire con loro. Visto che continuavamo a crescere di numero, nel 2014 l’associazione Per la strada − che si prende cura dei senza fissa dimora − ci ha assegnato i turni per la terza domenica del mese, qui alla stazione Termini. Ormai sono due anni che lo facciamo con puntualità e ogni volta a servire siamo una ventina di volontari, senza contare le circa quaranta famiglie che preparano pasti e cestini per sfamare 200 persone».
PASTA, PANINI E FRUTTA
Ogni volta ci sono circa 16 chili di pasta, se fa freddo una zuppa calda, bibite, una media di 170 cestini con panino imbottito e un frutto. Tutto è fatto in casa, ognuno ci mette il suo contributo come può, sia economicamente per fare la spesa, che con mani e braccia per cucinare o servire o fare entrambe le cose. «Il servizio effettivo dura un’ora, dalle 20.15 alle 21.15, dopo si va a pregare dalle suore Paoline che offrono una sala dove recitare la Compieta e una preghiera comunitaria. L’iniziativa è stata chiamata Apri le braccia a tuo fratello e per tenersi aggiornati sulle attività è attivo il sito www.pozzodigiacobbe.blogspot.it.
GLI OSPITI E L’ATTESA
Gli ospiti cominciano ad arrivare già dalle 19.30 e siedono sui marciapiedi di fronte all’ufficio postale, a quell’ora chiuso. Alcuni portano con sé le valigie che trascinano in giro per la città da anni. Altri hanno tutta la loro storia dentro uno zainetto sdrucito, altri ancora non portano nulla.
I più sono africani, mediorientali, ma tanti e sempre di più sono italiani. Alcuni cominciano a formare la fila, come ogni sera.
Sul marciapiede in attesa del pasto c’è Dahar, tunisino in Italia dal 1999, tornato in strada da tre mesi. «Sono stato tanti anni a Padova, poi ho vissuto due anni in Svizzera dove ho inoltrato richiesta di asilo per motivi umanitari. Mi avevano dato una casa, 400 euro al mese e avevo anche trovato un lavoro come lavapiatti, ma la mia richiesta di soggiorno è stata respinta e da un giorno all’altro mi hanno rispedito in Italia. Sono arrivato a Roma e adesso non ho nulla, neanche da mangiare. Tornare al mio Paese non è possibile, lì si sta peggio di qua». E poi c’è Laura, italiana sui sessant’anni, avvolta in una giacca più grande di lei. Chiede da mangiare anche per suo figlio che è rimasto a guardare le valigie. «Ne abbiamo otto», racconta. «Viviamo in strada da quando ci hanno sfrattato, tre anni fa. Mio figlio fa il guardiano alle valigie mentre io vengo a prendere un piatto caldo».
LA PREGHIERA
Formata la fila, i volontari cominciano a servire. Ci sono anche dei giovanotti che fanno servizio d’ordine, perché non è raro che scoppino dei piccoli litigi per chi deve passare prima: questo per molti è l’unico pasto della giornata e la fame rende nervosi. Mario arriva in sedia a rotelle accompagnato da un amico e chiedono tre piatti, due per loro e uno per un uomo malato che non può muoversi. Una signora italiana con capelli biondi lunghi molto rovinati chiede se qualcuno ha un antinfiammatorio, lo deve portare a un’amica. Aram, africano di vent’anni al massimo, arriva trafelato con uno zainetto e dei jeans lisi. Parla poco italiano e dice solamente: «Mangiare». La fila scorre: un piatto di pasta e subito avanti un altro, fino alle 21.15.
Finito di servire, i volontari lasciano la strada e raggiungono la cappellina. Chi vuole, fra gli ospiti, può seguirli. Un gruppo di quattro mediorientali si avvicina un po’ minaccioso alla macchina dove si stanno caricando le ultime vettovaglie e chiedono se è rimasto qualcosa. Purtroppo è finito tutto. I quattro si agitano, non ci credono. «Perché», si domandano, «non c’è cibo per noi?». I bisogni sono tanti e i volontari de Il pozzo di Giacobbe l’hanno capito bene: fra poche settimane torneranno di nuovo in via Marsala carichi di panini e pentoloni di pasta.
Foto di Alessia Giuliani/Cpp