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I paradossi della Felicità interna lorda

20/03/2014  Per una scuola di economisti non è il reddito l’unico criterio per misurare il benessere. Servono altri indicatori, come le relazioni interpersonali, l’ambiente, l’innovazione. Tutto interessante, ma a guardare i dati del Benessere equo e solidale dell’Istat si scopre che…

L’espressione i soldi non danno la felicità sembra essere uscita negli anni dal perimetro dei luoghi comuni. Almeno secondo alcuni economisti che per misurare la ricchezza di una nazione (e di un individuo) hanno deciso di mandare in soffitta il concetto di Prodotto interno lordo sotituendolo con il Fil, Felicità interna lorda.  Roba da eccentrici? Non per un decano della disciplina come Giacomo Becattini, secondo cui gli studi sul tema rappresentano “una rivoluzione silenziosa”. E per l’inglese Richard Layard, che  parla addirittura di una nuova scienza che comporta “una radicale riforma della teoria su cui si basa la politica economica”.

Il paradosso della Felicità interna lorda ha in ogni caso una data di nascita precisa. E’ il 1965 quando lo psicologo sociale Hadley Cantrill si mette in testa di misurare quantità quantitativamente la felicità. Lo fa all’antica,  attraverso un questionario destinato a persone di 14 paesi del mondo: Nigeria e Stati Uniti, Brasile e Giappone. “Supponi che chi è interamente soddisfatto con la propria vita sia al top della scala, a quota 10 – è la domanda -. Dove vedresti te stesso in termini di soddisfazione da 1 a 10?”.

La provocazione metodologica, spiega Luigino Bruni, economista esperto perché autore di Economia e felicità, “era quella di pensare che il 7 di un nigeriano fosse comparabile con il 7 di un americano, operazione del tutto estranea all’economia da 100 anni a questa parte”. Per inciso il sondaggio del 1965 affermò che la media mondiale si attestava intorno a 7,6, mentre quella degli statunitensi era di 6,6. Primo dato di un paradosso.

Oggi quel paradosso è diventato di pubblico dominio.  Lo prova il fatto che nel 1974 il demografo americano Easterlin aggiunge paradosso a paradosso, affermando che nei Paesi ad alto reddito la felicità individuale non aumenta all’aumentare del reddito.  La cosa si spiega la cosa con l’immagine del tapis roulant: noi corriamo per conquistare denaro, ma sotto di noi scorrono più vorticosamente le nostre aspirazioni. Sono i desideri la misura della felicità e questi non coincidono con i soldi che arrivano in tasca. Il risultato è che la felcitò resta ferma, corre su se stessa

A questo punto occorre fare un’avvertenza, se non altro per prevenire qualche commento irato. In tempi di crisi affermare che i soldi non fanno la felicità sembra quasi una beffa. Una provocazione vera per quella fetta di “italiani della terza settimana”, quelli che fanno salti mortali tra bollette, affitti e rette di università. Tutto vero, ma resta un fatto: gli economisti stanno provando altre strade per dare conto della ricchezza di una persona.

 Lo fa perfino l'Istat, che mentre con implacabile cadenza ci regala pessime notizie sul nostro Prodotto interno lordo, da un anno a questa parte ci dà anche la misura del “Benessere equo e sostenibile”. L’Istituto nazionale di statistica ha infatti identificato 12 dimensioni del benessere rilevanti per il nostro Paese, tra cui le relazioni sociali, il paesaggio, il patrimonio culturale, la qualità dei servizi, la ricerca e l’innovazione. “Il risultato – dicono  gli studiosi nel Rapporto – è che i residenti nel Mezzogiorno e le persone di estrazione sociale più bassa continuano a essere le categorie più penalizzate in tutte le dimensioni considerate”. E allora? Vuoi vedere che un po’ di soldi qualche piccola felicità almeno la danno?


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