Lo scafista, in fondo, è un pesce piccolo, il primo a finire nella rete. I pescecani, che ingrassano sulla disperazione dei migranti, nuotano al largo. Contano sulla protezione del mare aperto per sfuggire agli ami delle Procure affacciate sulle rotte dei barconi: Catania, Palermo, Reggio Calabria, solo per citare Distrettuali antimafia. Per loro il mare è un problema, la terra al di là del mare di più: devono fare i conti con le coste, con i confini. Perché la giurisdizione segue i contorni degli Stati. Gettare le reti lontano è sempre più difficile man mano che la situazione internazionale si complica.
A quel che se ne sa, finora a mangiarci sono squali d’altre terre e d’altri mari, se è vero che gli inquirenti, a cominciare dalla Direzione nazionale antimafia, escludono al momento un interesse delle mafie italiane nella tratta. Se parlano di collegamenti con la criminalità locale, non necessariamente organizzata, è per favoreggiamenti di piccolo cabotaggio: documenti falsi, servizio di staffette. Semmai alle mafie possono interessare le attività lucrose attorno ai servizi per i migranti, dopo.
Il percorso, anche quello dei soldi, che come ricordava Falcone sono sempre una pista da seguire, parte da lontano. L’ha spiegato, a proposito dell’operazione che ha sgominato una banda di eritrei, ganesi, etiopi e ivoriani, la scorsa settimana a Palermo, il procuratore aggiunto Maurizio Scalia: «Pretendevano da ogni migrante quattro pagamenti: 5.000 dollari per attraversare il deserto, 1.500 dollari per la traversata dalla Libia e 200-400 euro per il soggiorno clandestino in Italia una volta lasciati i centri di accoglienza, 1.500 euro per ricongiungersi ai familiari in Nordeuropa».
L’ipotesi, quando uno sbarco si affaccia sulle coste siciliane, calabresi, pugliesi, ma ci sono inchieste anche a Genova, è che a monte ci sia sempre un’organizzazione transnazionale che gestisce il traffico con base di volta in volta in Paesi diversi. Individuarla, però, è una corsa disseminata di ostacoli che dipendono da vari fattori.
«Il primo problema» spiega Gaetano Paci, procuratore aggiunto a Reggio Calabria, «è distinguere, in una babele di dialetti diversi, tra i derelitti, salvati in acque internazionali nell’ambito di Triton e Frontex, il migrante dallo scafista, spesso uno come gli altri, che non fa parte dell’organizzazione e che ha preso il timone nell’ultimo tratto, in cambio di uno “sconto”».
Tutto questo per dire che i pesci grandi stanno al riparo nuotando al largo: il meccanismo prevalente, descritto nei documenti della Direzione nazionale antimafia, consiste nell’imbarcare i migranti su un peschereccio più grande, che gli inquirenti definiscono “nave-madre”, per poi trasbordarli su barchette malconce mentre ancora sono in acque internazionali, affidandosi a un timoniere improvvisato per un altro tratto a grave rischio di naufragio. Il passaggio successivo è arrivare a riva attraverso il salvataggio. La Cassazione parla esplicitamente di «strumentalizzazione» dell’obbligo di soccorso in mare: un calcolo per sfruttare la Marina e i salvatori di passaggio come traghettatori finali, lasciando nell’ombra quelli intermedi e iniziali.
Da un lato, dopo anni di sbarchi massicci, alcuni strumenti investigativi sono rodati, dall’altro la labilità della situazione internazionale complica l’azione oltreconfine.
Dopo varie conferme in Cassazione pare pacifica la giurisdizione italiana anche in acque internazionali, quando si verifica un salvataggio “in stato di necessità”. In questo caso il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina non viene contestato a chi materialmente trasporta salvando le persone, ma a chi di fatto li costringe a commettere un’azione che sarebbe illegale e cioè agli organizzatori del traffico, ai comandanti delle navi-madre, agli armatori dei mercantili. Sono loro i veri obiettivi, come spiega Giovanni Salvi, capo della Procura di Catania, la prima a istituire, nel 2013, una sezione specializzata in reati in materia d’immigrazione: «In passato siamo riusciti a individuarne alcuni, contando sulla collaborazione dell’autorità giudiziaria egiziana. Ma dove, come ora in Libia, mancano interlocutori istituzionali e giurisdizionali, anche chiedere l’intestatario di un telefono o l’accesso a un conto corrente è un’impresa». E i pescecani nuotano.