Raggiungiamo Irene Salvatori reduce da un trasloco di millecinquecento chilometri. «Ho studiato in vari Paesi e soprattutto in Polonia, poi mi sono trasferita a Berlino, e da qui mi sono spostata per i miei figlioli», ci spiega, e quell’appellativo affettuoso palesa subito le origini toscane. «La maggiore è voluta andare in Francia per lo studio e abbiamo deciso di raggiungerla a Pontlevoy, un paesino sulla Loira dove stava, perché anche gli altri due figlioli potessero imparare il francese. Ora però stiamo per rientrare a Berlino». Traduttrice e poetessa, Irene Salvatori ha esordito come narratrice con il pluripremiato romanzo Non è vero che non siamo stati felici (Bollati Boringhieri), dialogo in forma di telefonate alla propria madre, cui l’autrice confida l’avventura di essere mamma a sua volta, senza purtroppo poterla avere accanto.
Il trasloco può essere un vero esercizio spirituale. Pur senza ritirarsi nel silenzio di un convento, si riprende in mano fisicamente il proprio passato...
«Vero. Quando dieci anni fa ho venduto casa e l’ho dovuta svuotare completamente, il trasloco è stato quasi una lavanda gastrica. Ogni mobile rivelava cassetti, e ogni cassetto cose dimenticate, e davanti a ognuna bisogna fare una scelta. Non finivano mai. Quest’ultimo trasloco invece è stato più leggero: è stato un ritorno a casa».
Cosa significa “casa” quando si viaggia così tanto?
«A me piace andare via e traslocare, perché si inventano posti nuovi dove tornare. In effetti ciò che adoro davvero non è partire, ma poter tornare — ritornare a casa — e per questo creo tante case dove poter tornare. “Casa” significa forse questo: lo spazio in cui si mette ordine fra le memorie».
La memoria è materia sfuggente, che però sant’Agostino pone al centro della vita spirituale. Non è uno sguardo rivolto al passato, ma un modo di vivere il presente. E per lei?
«Per me la memoria è un’attività creativa che riempie l’assenza, il vuoto fisico lasciato da persone o luoghi. La grande eredità che sto trasmettendo ai miei figlioli è il ricordo di mia mamma, che non hanno mai conosciuto, e così ogni giorno cerco di farla rientrare nella nostra quotidianità raccontando delle storie su di lei. Oltre alla memoria narrata ci sono anche la memoria fisica — fatta di case, vestiti, oggetti quotidiani — e quella delle abitudini: ciò che le piaceva mangiare, le cose che abbiamo fatto insieme, ciò che ho imparato da lei e insegno loro. Trasmettere tutto questo, rendendolo sempre molto giocoso e allegro, significa inventare una lingua nuova».
Nel suo racconto, che i lettori di Credere scopriranno, oltre alla memoria, ha un ruolo centrale anche la musica, la più universale delle arti...
«La musica è un altro modo per riempire lo spazio vuoto. I vuoti, in fondo, sono una delle poche certezze che abbiamo: grandi assenze che ci fanno compagnia e ci rimarranno sempre accanto. La musica, per me, è uno spazio fondamentale di presenza. Ho voluto che i miei figlioli potessero frequentare scuole dove la musica è parte integrante, in modo speciale l’esperienza del coro. So quanto sia importante per la crescita cognitiva di un bambino imparare a intonarsi insieme ad altri. Inoltre, quando le voci si uniscono, succede qualcosa».
La musica libera e alleggerisce, aiuta a “mollare la presa” su emozioni, pensieri, paure. In che misura la spiritualità ha a che vedere con una “perdita di controllo”?
«Credo che la questione di fondo sia la fiducia. È un po’ come quando siamo nell’acqua. Vengo da Forte dei Marmi e sulla costa vi sono le “buche” — come le chiamano — cioè dei mulinelli piuttosto pericolosi. Se ti fai prendere dalla paura e ti irrigidisci, ti possono risucchiare sul fondo. L’unico modo è assecondare la corrente, rilassarsi, aspettare il momento giusto e uscirne. Ma si può fare solo quando il corpo abbandona la contrazione dovuta dalla paura. Allora il corpo si apre e si alleggerisce. Credo sia un po’ tutto lì».
Dove c’è paura, non può esserci spiritualità. Qual è la paura più grande da affrontare, e con quale fiducia la si accetta?
«Abbiamo paura di perdere qualcuno. Ci fa paura accettare che la memoria di qualcosa a noi molto caro diventerà solo una storia di parole. C’è però la meraviglia del credere nelle storie, quell’attimo di fiducia in cui il narratore crede nella storia che racconta e l’ascoltatore crede nella storia che riceve. Ed è un momento di assoluto alleggerimento».
Senza svelare troppo, la protagonista del suo racconto si sorprende di come gli esseri umani sappiano trarre la musica da una materia fredda come il bronzo. E l’uomo, di che materia è fatto?
«La protagonista del racconto è un oggetto e la sua identità consiste soltanto nell’essere un materiale. Non capisce concetti come la consistenza, la temperatura o lo scorrere del tempo. Per questo guarda gli uomini e si stupisce della voce, di ciò che è leggero, della capacità creativa, ma anche delle lacrime, degli abbracci, della vergogna, di tutto ciò che chiamiamo “emozioni”. Di che materia sono fatti gli uomini? Di voce. Siamo parola, musica e canto».