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martedì 12 novembre 2024
 
 

"I santi di oggi? Quelli che vedono il volto di Dio in ogni creatura"

30/07/2013 

- Eminenza, di quali esempi di santità abbiamo oggi bisogno? Chi sono i nuovi Santi del nostro tempo?

 

 

«Prima di tutto coloro che sono miti di cuore, capaci di vedere e riconoscere Dio in ogni creatura e di lasciar trasparire dal proprio volto, dalle proprie azioni e dal proprio cuore la presenza di Dio e di Cristo Signore sulla terra e all’interno della Chiesa. Questo è il compito della Chiesa di oggi: “lasciar trasparire”. Sant’Agostino aveva un’espressione fortissima: i sacerdoti, i vescovi sono come le montagne perché le montagne sono le prime ad indicare l’apparire, il sorgere del sole. Trovo che questa affermazione sia carica di una potenza espressiva straordinaria: cogliere per primi la luce, il calore. Cristo Signore è presente tra noi. Il capitolo decimo settimo di San Giovanni – che tratta del testamento di Gesù, una confidenza lunga e affettuosa, dove Gesù apre il suo cuore  - ci spiega il senso di questa presenza: “Padre mio erano Tuoi: li hai dati a me e io li ho custoditi”. In altre parole Gesù fa capire che il compito della Chiesa è di testimoniare una presenza continua –Gesù ascende al cielo ma lascia tra noi i suoi testimoni: non coloro che fanno ‘grandi cose’ ma coloro che hanno un ‘grande cuore’. Gesù vuole che noi viviamo la sua presenza come testimoni dell’amore di Dio».

- Che cosa resta di sacro nell’epoca della secolarizzazione?Come possiamo conservare una dimensione spirituale nella nostra esistenza?In che modo possiamo indicare ai giovani la via della verità e del bene?

«Io ritengo che il nostro sia il tempo migliore per questa testimonianza.C’è un senso diffuso di pessimismo che ormai è una specie di ’moda’: io sono nato nel 1914 e voglio ricordare brevemente la mia prima infanzia, legata al ritorno di mio padre dalla guerra.Mio padre era un uomo mite, sereno, era un uomo della pace, della serietà, del coraggio.Lui era capo bifolco in una grande azienda, non l’ho mai sentito dire: ‘non ce la faccio’, ‘non si può andare avanti’,’ormai è finita’.Nella mia casa c’era un clima di gioia e di speranza, eravamo poveri ma sereni perché ciò che contava era la certezza della presenza di Cristo nella nostra coscienza.Era importante questo: avvertire la presenza di Dio dentro di te».

 - Mi scusi Eminenza, quello che Lei sta raccontando mi fa venire in mente alcune parole del Suo grande amico Enzo Biagi: “di tutte le cose che ho imparato nella vita quelle veramente importanti, care al mio cuore, sono quei tre o quattro insegnamenti appresi in famiglia”. E’ d’accordo?  

«E’ vero, è così. Lui aveva avuto una madre straordinaria, una donna di grande coraggio, di fervore religioso non gridato ma avvertito. Lui mi aveva raccontato un episodio su sua madre: a lei era stato ucciso dai partigiani un fratello che era fascista e lei – con coraggio indomito, enorme - era andata a seppellirlo e poi aveva ripreso la sua vita, senza paura, senza vergogna. Biagi aveva ereditato da sua madre questa fierezza, ammirava il coraggio e le virtù dell’uomo comune era colto, aveva studiato ma ciò a cui teneva di più erano gli affetti e le responsabilità familiari e il senso della bontà dell’uomo comune: era un uomo onesto.
Sentimenti che trovo affini a quelli appresi nella mia famiglia. Mio papà – come ho detto era un salariato agricolo – un certo giorno, quando un mio fratello di 17 anni, un muratore ‘magnifico’, aveva deciso di lasciare la famiglia per andare in America a raggiungere una zia che lì aveva fatto dei soldi,  ci riunì tutti ( 5 figli, di cui tre maschietti) e disse: “vostro fratello vuole andare in America per fare un po’ di soldi ma io non ho piacere”. “Ragazzi, tenetevi bene in mente quello che vi sto dicendo. Ciò che conta nella vita sono tre cose: un pezzo di pane, volersi bene e la coscienza netta”. Quando ne parlai un giorno con un deputato se lo annotò e mi disse: ‘voglio farne il programma del mio impegno politico’. “Un pezzo di pane, volersi bene e la coscienza netta”: mio padre era capo bifolco ma tutti volevano lui.
Ad esempio quando si trattava di falciare un campo se lo faceva un ‘bullo’ prendeva l’abbrivio veloce e rovinava tutto, se lo faceva un fannullone non combinava nulla: tutti volevano mio padre perché aveva il passo adatto a tutte le cose. Un contadino, quando morì mio padre, mi raccontava dei tempi di quando dormivano nella stalla: ‘alla sera spegnevamo il lumino alle sei e ci svegliavamo alle quattro che fumava ancora’. Tutto questo, però, senza mai maledire la fatica o il lavoro: fare il proprio dovere fino in fondo».

- Quale vocazione accomuna sacerdozio e famiglia?Quali difficoltà, quali speranze, quali sacrifici, quale destino? 

«Sempre l’amore di Dio e la vocazione dell’amore, mettere la propria vita a disposizione degli altri: sotto questo aspetto siamo madri e padri a vicenda.L’amore ricevuto in famiglia, crescendo, si trasmette agli altri e si rinnova nelle generazioni future, così, senza sforzo, come un ‘bisogno d’anima’.Uso un’espressione che poche volte ho sentito usare ma l’avverto proprio come mia: “il gusto”.
Io ho ricevuto da mio padre e da mia madre non i ‘grandi insegnamenti’ o i ‘comandi’, i ‘grandi doveri’, ma il ‘gusto’ del bene.
Fare il proprio dovere, rispettare tutti e a tutti volere bene: sono questi i grandi valori.Quando ho studiato e poi insegnato filosofia li ho ritrovati tutti: a cominciare dall’antichità, da Platone, e Aristotele. Penso agli insegnamenti che ricaviamo dalle grandi tragedie greche.
Eschilo era un greco che però faceva un elogio straordinario delle donne persiane che aspettavano i messaggeri che portavano l’esito della battaglia di Salamina mentre al loro cospetto arrivavano nunzi che recavano notizie sempre peggiori.Il migliore elogio di queste donne persiane, l’esaltazione della loro maternità, dei loro sentimenti era fatto da un greco. Trovo questa cosa straordinaria». 

- Eminenza ci aiuta a comprendere in che misura la preghiera è l’occupazione più preziosa che un essere umano possa realizzare, l’espressione più profonda della sua capacità di riflessione, la manifestazione più acuta e avvertita della sua sensibilità spirituale?  

«La preghiera è l’essenza della spiritualità, il modo migliore per esprimersi: ‘io ho bisogno di parlare con qualcuno e mi confido’. 
La preghiera è ‘confidenza’. “Guarda Signore: le cose stanno così, così, così e così. Io parlo con Te perché voglio affidarmi”. La preghiera è ‘affidamento’.
Mi affido perché so di appartenere e Gesù ci fa capire che è in questo affidamento che si onora Dio. Gesù dice “Padre, erano tuoi e li hai dati a me”: quando io penso a questa preghiera vi trovo il capolavoro di tutto il Nuovo Testamento. Io dico che c’è una forza incredibile in queste parole: Gesù si mostra figlio di Dio ma anche uomo vero, esprime una sensibilità umana acutissima, nessuno ha capito meglio l’umanità di Cristo Signore.
“Erano tuoi e li hai dati a me: io li ho ‘custoditi’ ”. Un fratello custodisce il fratello, diventa padre e madre del fratello e dei suoi stessi genitori, la paternità diventa una condivisione, un sentimento che crea “famiglia”».

- Perché in molte parti del mondo in nome di una fede religiosa si accendono i focolai del fondamentalismo?
Può la religione essere motivo di  conflitto etnico, di dissidio, intolleranza e persino di odio tra i popoli, ben oltre le consuete dispute teologiche?
Quando la fede può confliggere con la ragione e la civiltà, con i valori universali che riguardano l’uomo e la vita?


«Trovo che questa sia la peggiore offesa che si possa fare a Dio: utilizzare la religione come motivo di odio anziché di amore.La religione significa riconoscersi fratelli degli altri uomini, sentirsi ‘responsabili’ di tutti gli altri esseri umani che incontro.Perché l’amore del prossimo che ci viene comandato non è tenerezza e neppure elemosina ma è il considerare gli altri come cosa che ci appartiene». 

- Perché l’Europa- negli atti fondativi dell’unione-non ha riconosciuto le proprie radici cristiane?Perché a volte- in molte scelte - nascondiamo questa fede, questa appartenenza?


«Io non voglio credere che sia proprio così. Noi dobbiamo stare attenti perché viviamo in un momento in cui il ‘padrone’, il vero punto di riferimento dell’umanità diventa proprio il giornalismo, la notizia.Sono i mass media che non solo fanno conoscere ma ‘impongono’ le informazioni e noi siamo tentati di dare più ascolto e credibilità alla notizia pesante o gigantesca, specie se è negativa.Diamo risalto e importanza all’eccezionale, dimenticando che la vita è normalità, è una ‘continuazione’: non c’è mai un ‘attimo’, un ‘evento’ che fermi la storia.Gli stessi genitori, vedendo crescere il loro figlio si rendono conto di questa continuità». 

- Recentemente la TV ha trasmesso la fiction sulla vita e l’opera di Paolo VI, considerato a torto o a ragione il primo Papa della modernità. Lei fu molto vicino al Santo Padre: ci aiuta a ricordare in particolare la Sua partecipazione emotiva e spirituale alla vicenda del sequestro di Aldo Moro, a Lui legato da una lunga conoscenza personale? Abbiamo ancora in mente le parole di quella lettera: “Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse….”  

«Ne ho un ricordo molto forte perché in quella occasione io stesso – per fare eco al Papa – scrissi tre lettere alle Brigate Rosse. Il suo fu un gesto generoso e di grande coraggio, che non poteva essere lasciato solo. Io in quel periodo ero personalmente molto vicino al Santo Padre e suo confidente anche per un preciso e particolare motivo.
Paolo VI aveva capito meglio di ogni altro e di noi stessi Vescovi l’importanza del giornale quotidiano cattolico Avvenire. Lui su questo si era appassionato e chiamò me, affidandomi fin dall’inizio del suo progetto il compito di un rilancio della stampa cattolica.
Una settimana prima di morire mi richiamò di nuovo: aveva realizzato un libretto di circa 40 o 50 pagine, da stampare in alcune decine di migliaia di copie da consegnare ai Vescovi e da questi ai sacerdoti per un rilancio di Avvenire. Mi chiamò – era un lunedì e lui poi morì la domenica successiva – per consegnarmi questo libretto che lui stesso aveva modulato e lo fece con un fervore enorme.
Sapeva lui molto bene delle difficoltà che avrebbe incontrato nella realizzazione del suo progetto (tra l’altro aveva fatto chiudere tutti i giornali cattolici locali ad eccezione dell’Eco di Bergamo) e delle resistenze che poteva trovare.
Morì dopo una settimana e lasciò intentata quell’idea. Con il Papa successivo, nonostante io stesso e Mons. Macchi avessimo intenzione di riproporlo, non fu possibile riprendere quel progetto perché Papa Giovanni Paolo I venne a mancare un mese dopo il suo Pontificato.
 La grande intuizione di Paolo VI fu quella di capire che la modernità era uno strumento per diffondere la parola. Con Papa Wojtyla ebbi poi la possibilità di realizzare presto un’occasione di conoscenza personale e lo invitai in Romagna per una visita che durò cinque giorni: gli dissi “Santità, si fermi almeno qualche giorno da noi”. Lui accolse subito il mio invito e lo ospitammo proprio qui, in questa Casa di S. Teresa in Ravenna. In quella circostanza gli fui molto vicino. Una seconda volta tornò in visita a Ferrara, nella cui provincia c’era anche il comune di Argenta (che fa parte della Diocesi di Ravenna), luogo natale di Don Minzoni. Io chiesi al Santo Padre di far visita anche in quella parrocchia, per onorare la memoria di quel valoroso sacerdote-martire.
Ricordo che anche il Presidente della Repubblica On.le Cossiga presenziò in occasione di quella circostanza.
Posso dire che con Papa Giovanni Paolo II ci furono un’intesa e un rapporto di collaborazione straordinari.
Era una persona di una intuizione enorme. La sua visita lasciò un’eco vastissima e in particolare voglio ricordare l’incontro del Santo Padre con 30/40 mila giovani, quando lui fece un discorso formidabile e disse: “E adesso parlo a voi che dite di non credere: cercate Dio, è un gran bene. Come disse S.Agostino ….”fai quel che vuoi, dì quel che vuoi ma non puoi impedirmi di sentirmi tuo fratello”…. A quel punto tutti i giovani balzarono in piedi applaudendo.
Realizzammo anche un opuscolo a ricordo di quella visita del Santo Padre».

- Citiamo un altro aneddoto. Le chiedo di ricordare insieme a noi le parole pronunciate quella sera di ottobre del 1962 da Papa Giovanni XXIII con il suo messaggio: “Continuiamo dunque a volerci bene…. guardandoci così nell’incontro: cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte, se c’è, qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà….”
Parlando della luna presente quella sera, della carezza ai bambini e del conforto a chi soffre, quel Papa era riuscito in poche parole a comunicare un messaggio intellegibile all’universo intero in quanto amore, ispirazione, affanno e sofferenza sono parte dell’uomo, oltre i distinguo delle fedi religiose, culturali e ideologiche.
Non crede anche Lei – Eminenza - che se gli uomini e i popoli della terra cercassero di applicare con tutto il loro cuore, con la loro mente e le loro energie quell’insegnamento, che non può non essere condiviso, basterebbero meno parole per intendersi e vivere nel segno di una ritrovata concordia e di una ricomposta serenità.
- Perché le parole più schiette e genuine, pronunciate in nome dell’amore universale e della bontà sono quelle che vanno diritte al cuore?


Le parole di Giovanni XXIII restarono nel cuore perché furono dettate dalla spontaneità del cuore, così come quelle del Papa attuale, il suo monito contro le armi e la guerra in Palestina.
Proprio in questi giorni di ripresa del conflitto arabo-israeliano l’intervento così forte, risoluto di Papa Benedetto XVI, il suo autorevole, penetrante richiamo alla pace nel mondo è come uno squarcio di luce nel buio del baratro incombente.
Quel sangue implacabile che si versa ancora non può non struggere il cuore dell’uomo e il richiamo del Santo Padre ha una forza e un’autorevolezza assolutamente straordinarie, le sue parole non possono non essere ascoltate.


- Mi permetta di citare brevemente un pensiero e un monito di Papa Giovanni Paolo II: “Aprite, anzi spalancate le porte del vostro cuore…..non abbiate paura”.
Ci aiuta a comprenderne l’attualità del significato?


Lo pronunciò proprio in occasione del suo primo saluto e suscitò un impatto straordinario perché si capì fin da subito che era un uomo di grande coraggio, che non aveva paura di entrare nella realtà concreta delle cose umane.
Possiamo dire che abbiamo avuto dei Pontificati splendidi per la loro carica umana, per la capacità di parlare all’umanità e alle coscienze così come avviene in una famiglia quando un padre e una madre si rivolgono ai loro figli.
Viviamo un momento storico eccezionale in cui non può mancare alla Chiesa e ai suoi Pontefici il senso della storia, perché in ogni ora si gioca il destino dell’umanità intera e non solo di questa epoca bensì intensamente dello stesso futuro.
Mi faccia ricordare il confronto, il parallelo di due personaggi vissuti cinquecento anni prima di Cristo, che furono il profeta Isaia e Socrate.
Questo parallelismo non è sbagliato: sono entrambi un segno della grandezza dell’uomo.
Nella storia abbiamo avuto dei periodi straordinari.
Gli ultimi pontificati hanno espresso la capacità di condividere la dimensione mondiale dei problemi. La Chiesa è più che mai presente in questa epoca che ha potenzialità enormi.
Vediamo anche adesso quale significato possono avere per le sorti dell’umanità eventi come l’elezione del Presidente degli Stati Uniti o la stessa guerra in Palestina, tutto ha una dimensione planetaria.
I popoli fanno la storia ma hanno bisogno di guide forti e lo vediamo dalla statura di certi personaggi che emergono nella nostra storia occidentale.
La Chiesa ha avvertito la necessità e la responsabilità di parlare a tutti perché il destino dell’umanità appartiene a Dio, è il suo tesoro.
Cristo Signore è venuto a farsi uomo per questo.

- Parliamo brevemente della difesa della vita, dal concepimento, alla nascita e fino alla morte di ogni essere umano.
Possono scienza e fede trovare dei punti di intesa e delle soluzioni che diano risposte agli affanni, ai dilemmi e ai grandi problemi dell’esistenza?


«Devono farlo. La scienza è già un dono. Ho l’impressione che su questo tema si faccia una grande confusione e fede e scienza quasi siano portate a configgere tra loro, come se fossero giorno e notte.
In realtà non è così, assolutamente. La ragione è un dono di Dio e la Bibbia ci presenta proprio l’uomo come un essere fortunato cui è affidato il compito di governare e guidare il resto dell’universo, conoscere le cose, graduarle tra loro anche in rapporto all’uomo.
Con questa precisazione: che l’uomo è il punto di riferimento di tutto l’universo.
E’il destinatario, il riferimento, il responsabile di tutto l’universo».

- Perché stampa e TV, mezzi di informazione ci chiedono continuamente di schierarci su questi temi: della vita, della scienza, della bioetica ecc.? Si può chiedere attraverso un TG alla gente se è giusto o sbagliato “staccare la spina a un malato terminale”?

«No, non credo siano argomenti da confronto statistico. Però tutto deve essere utilizzato per tenere desta la sensibilità delle coscienze. Guai se il mondo fosse indifferente.
E’ il giornalismo, l’informazione che ha in mano il destino del mondo, conteranno sempre meno gli altri poteri, i giochi tra maggioranze e minoranze, in altre parole la democrazia diventerà un sistema diffuso, partecipato.
La Chiesa deve accettare questa sfida, entrandoci dentro e guidando le scelte dell’umanità, aiutandola a decifrare, rendendo l’uomo responsabile.
Teniamo conto di un dato di fatto: l’uomo ha un grande dono ed è l’intelligenza».


- Fede, speranza, carità. Quanto possono riempire la nostra vita e darle un senso, un destino?

«La risposta sta nell’idea di mondo e nel destino dell’umanità.
L’uomo è il tesoro di Dio ed è per lui talmente importante che la scelta di Dio è stata quella di farsi uomo: Dio si è compromesso, entrando dentro la storia umana.
Bergson disse: “La gloria di Dio è l’uomo vivente”.
Proprio per questo Dio ha giocato la sua sorte sull’uomo e l’ha giocata con l’incarnazione, questa a leggerla bene, è una scelta incredibile: ha scelto l’incarnazione e la sorte umana.
La carità è quella che riassume – come ci insegna San Paolo – anche le altre due virtù.
La fede e la speranza rendono l’uomo figlio di Dio però a una condizione: che l’uomo si assuma la responsabilità di tutti gli altri uomini.
Il figlio di Dio è il grande mistero. Il destino dell’uomo è il destino di Dio.
Gesù a un certo momento ha spalancato sé stesso al mistero più grande, quello della Trinità.
L’umanesimo stesso nasce in questo clima: in altre parole dobbiamo renderci conto che l’essere cristiani significa sentirsi caricati della responsabilità dell’intero universo (del neonato, del bambino abbandonato, del povero, del vecchio morente).
Ecco perché ad esempio gli ospedali li hanno chiamati “hotel Dieu”.
Dobbiamo far capire a tutti che questa epoca è un’ora splendida per chi vuole far del bene e realizzare in pieno la sua missione storica.
Io non sono così pessimista su questo momento: forse nella storia non abbiamo mai avuto un periodo straordinario come quello attuale.
Quando noi pensiamo al fatto che il Papa è ascoltato dal mondo intero capiamo il valore della presenza della Chiesa in questa epoca.
C’è una corresponsabilità per il mondo intero.
Il senso del rispetto della vita umana entra di diritto in tutti i contratti sociali, non c’è mai stato un tempo come questo.
Il senso di giustizia di oggi è ciò che era la carità, un suo derivato.
La giustizia è la piena attuazione della carità.
Non si tratta altro che di quella che i Romani chiamavano “equitas”, cioè ‘ciò che è giusto’.
Mi lasci chiudere con un pensiero di Platone, nel Fedone, quando riferisce del lungo dialogo tra Socrate e un suo discepolo.
Discutono a lungo e il giovane sostiene che la forza del discorso sta nella capacità di persuasione e Socrate invece dice che la forza sta nel cuore dell’uomo.
A un certo punto Socrate dice: “Piantiamola di discutere, preghiamo”.
“O caro Dio Pan o altri Dei, concedetemi di essere più bello di dentro che di fuori e fate che l’esterno di me sia conforme all’intimo di me e io riesca a ritenere ricco il sapiente e il temperante”.
Ecco, la temperanza è la virtù dell’uomo saggio».

 
 
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