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martedì 17 settembre 2024
 
 

I sentieri promettenti dell’integrazione

13/07/2012  La scuola può svolgere un ruolo di fondamentale importanza nel favorire la tutela della salute mentale. L’incremento di insegnanti di sostegno e i progetti educativi lo dimostrano.

La scuola può svolgere un ruolo di fondamentale importanza nel favorire la tutela della salute mentale. L’incremento degli insegnanti di sostengo e i progetti educativi ideati negli ultimi anni lo dimostrano. Ma il processo di integrazione dei disabili necessita di un ulteriore sprint, proprio nell’attuale processo di rinnovamento istituzionale.

Per l’universo infantile e adolescenziale la scuola è la più estesa organizzazione sociale non specializzata alle prese con tutti i soggetti che presentano disagio, sofferenza mentale, handicap psicofisico, disabilità, disturbo psichiatrico, malattia mentale, e via elencando. L’Organizzazione mondiale della sanità da anni insiste sulla fondamentale importanza della scuola per la tutela della salute mentale, dando ormai per scontato che ogni Paese debba avere una politica di promozione della salute mentale nella scuola e ogni scuola debba avere attività di promozione nei suoi piani educativi. Il nostro Paese ha una legislazione tra le più avanzate per l’inclusione dei disabili nelle scuole di ogni ordine e grado; per fare il punto della situazione oggi, si può partire dalla L. 517/77, che ha soppresso le classi differenziali e le scuole speciali, nel clima della legge Basaglia, avviando un processo di cambiamento culturale, pedagogico e di politica sanitaria.

Da sempre le alterazioni della mente o del corpo hanno minacciato il fragile, confuso modello di “normalità” a cui ci si aggrappa, per allontanare sensi di colpa e angosce generate dal fantasma del diverso e dell’ignoto. La storia delle restrizioni di libertà e di diritti, di emarginazione della diversità – manicomi, carceri, ricoveri, istituti, collegi, scuole speciali, etc. – è lunga quanto la storia dell’uomo, e, ancor oggi, stigma e discriminazione sono ostacoli che le persone con disturbi mentali si trovano ad affrontare. Il rispetto dei diritti delle minoranze misura il livello civile di una comunità e coinvolge più versanti: psicologico, biologico, educativo, scolastico, sociale, e anche etico e politico. «Crescenti evidenze dimostrano che gli antecedenti dei disordini mentali degli adulti si possono trovare nei bambini e negli adolescenti... Continuare a trascurare i bisogni di salute mentale dei bambini e degli adolescenti è inaccettabile e deve finire» (Child Mental Health Atlas, Who 2005). «Non c’è salute senza salute mentale» (Prince M. et al., 2007).

Quando si parla di disagio psichico a scuola, è necessario chiarire di cosa stiamo parlando. Molte volte è nella scuola che si manifestano difficoltà nei comportamenti e nelle relazioni all’origine di deludenti prestazioni scolastiche, generando disagio e sofferenza nelle famiglie e negli insegnanti, in assenza di una cultura dell’alleanza per trovare soluzioni al problema. Spesso gli insegnanti osservano che il problema di una classe non è “l’handicappato riconosciuto” ma «tanti altri casi che non siamo attrezzati a gestire...».

Nelle scuole del Paese, nell’anno scolastico 2010/11 (fonte: MIUR Direzione generale per gli studi, la statistica e i sistemi informativi), gli alunni disabili sono 208.521, il 2,3% sull’intera popolazione scolastica, con un incremento del 50,9% negli ultimi dieci anni; il 92% frequenta la scuola statale. Per le tipologie di disabilità, è stata disaggregata la categoria disabilità psico-fisica in intellettiva e motoria. La voce “altra disabilità” – 21,4% – include gli alunni con problemi psichiatrici precoci, disturbi specifici di apprendimento, se certificati in comorbilità con altri disturbi, sindrome da deficit di attenzione e iperattività (Adhd). La disabilità intellettiva è il 69,1% del totale dei disabili.

I docenti di sostegno statali sono passati dai 65.615 – l’8% tra tutti i docenti – del 2000/01 ai 94.506 del 2010/11 – il 12,1%. Attualmente la media nazionale è di uno per due alunni disabili. Per dare un peso al disagio psichico nella scuola: il 20-25% della popolazione di età superiore ai 18 anni, nel corso di un anno, soffre di almeno un disturbo mentale clinicamente significativo (De Girolamo, Tansella, 2001), e pur nella disomogeneità dei criteri e delle specificità, la popolazione in età evolutiva con un disturbo diagnosticabile in un anno (Dsm IV), è intorno al 20% (Roth e Fonagy 1997, Nardocci 2001).

C’è poi l’area della cosiddetta “sofferenza scolastica”: i dati più recenti sulla dispersione, indicano (Censis 2011) attorno al 19% (5 anni fa 22%) i giovani tra i 18 e i 24 anni con licenza media che non partecipano ad alcuna attività di educazione/formazione; meno dell’1% non hanno la licenza media. I Neet, 15-29enni che non studiano e non lavorano, sono oltre il 22%. Se tra i 12 e i 14 anni è presente un disturbo psicologico, è altamente probabile che lo si ritrovi a 16-18; gli anni della scuola secondaria sono i più a rischio per break down evolutivo, esordio di psicopatologia grave, condotte devianti.

La problematica del disagio psicologico che la scuola affronta è ben più ampia della patologia “certificata”. Per il successo formativo allora, quali buone pratiche educative devono arricchire il tradizionale mandato della trasmissione del sapere, per formare cittadini attrezzati a vivere in una società fondata sulla conoscenza e in contesti di vita sempre più complessi e difficili da interpretare?

Alla L. 517/77 è seguita una messe di interventi normativi per calare nella realtà affermazioni di principio e dichiarazioni ideali, per attrezzare la scuola al riscatto culturale e sociale anche per i più svantaggiati. Nelle produzioni del ministero della Pubblica Istruzione, del ministero della Salute, delle Regioni, delle Aziende sanitarie, delle Province, dei Comuni, degli Uffici scolastici regionali e provinciali, delle Istituzioni scolastiche autonome, non è facile rintracciare gli aspetti innovativi, e l’effettivo processo di integrazione. Nel 2009 appaiono le “Linee Guida” per l’integrazione scolastica degli alunni disabili, con l’obiettivo di “rilanciare il tema in questione, punto forte della tradizione pedagogica italiana”. Nella prima parte si svolge l’analisi dei cambiamenti culturali della storia legislativa.

In tutti i documenti si parte dai diritti costituzionali di libertà e uguaglianza, dalla L. 118 del 1971 che comincia a parlare di inserimento nelle classi comuni, per trovare nella citata L. 517/77 indicazioni più concrete: docente di sostegno, responsabilità dell’intero Consiglio di classe. Nel decennio successivo (1987) la sentenza n. 215 della Corte Costituzionale sancisce il diritto pieno e incondizionato di tutti i disabili, qualunque ne sia la minorazione o il grado di complessità, alla frequenza in tutti i livelli di scuola.

La CM del 1988 recepisce la sentenza della CC, e diviene riferimento fondamentale per la normativa successiva, con indicazioni attive per realizzare «l’effettività del diritto allo studio di alunni con handicap di qualunque tipologia in ogni ordine e grado di scuola». Si istituiscono: gruppi di lavoro nei Consigli scolastici distrettuali con UU.SS.LL., Enti Locali rappresentanti di associazioni ed enti del territorio, profilo dinamico funzionale, presidi assistenziali; la scuola secondaria non può limitarsi alla semplice “socializzazione in presenza”, ma deve garantire di regola apprendimenti rapportabili all’indirizzo di studi; se il livello è troppo lontano, sarà riconosciuto da un attestato di frequenza senza effetti legali, che può servire per la formazione professionale.

La Legge quadro 104/1992 riorganizza tutta la normativa precedente, e diviene il nuovo punto di riferimento. Si legge (art.12, c.3): «L’integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione»; e (c.4): «L’esercizio del diritto all’educazione e all’istruzione non può essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all’handicap».

Nel 1993, la Convenzione Onu sposta il focus dal deficit e dalla minorazione alla dimensione sociale e al contesto di vita, determinante per l’esperienza che ciascuno fa della propria condizione di salute. «La disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri»
(Preambolo, punto e).

Si parla di “accomodamento ragionevole” per quanto il contesto può attivare, in merito ad ambienti, procedure, strumenti educativi e ausili, per una piena inclusione sociale. Nel 1971 la Dichiarazione dell’Onu parlava di “sub-normale mentale”.

Le Linee Guida affrontano poi aspetti organizzativi, gestionali e metodologici di una scuola che, per non essere discriminante, deve assumersi la finalità del successo formativo per tutti gli alunni. Si parla di reti di scuole, governance, ruolo del Dirigente e leadership, cooperazione e corresponsabilità dei team docenti, flessibilità, completamento del Pei con il Progetto di vita, primato dell’apprendimento, collaborazione con la famiglia, imprescindibile per il successo formativo. La Dichiarazione di intenti del Gruppo di lavoro interistituzionale regionale lombardo (Glir, 2011), recepisce dalla Convenzione Onu 2006 che quello di disabilità è un concetto in continua evoluzione, e per questo è opportuno parlare non solo di gravità, ma anche di complessità, per cogliere meglio il nesso tra bisogni e risposte necessarie, particolarmente in età evolutiva, ove per l’interazione continua tra i diversi elementi secondo modalità non lineari, si richiedono continui aggiustamenti di strategie in corso d’opera.

Le Linee Guida per l’inclusione della disabilità sono dunque motore di cambiamento per una scuola che cerca di innovare la qualità del proprio servizio. Altro forte cambiamento di prospettiva era stato già avviato dall’autonomia scolastica (L. 59/97), che rovesciando il rapporto tra leggi, decreti, circolari, programmi e azioni gestionali organizzative, culturali, didattiche di ogni singolo istituto nel proprio territorio/contesto, aveva rafforzato l’assunzione di responsabilità di tutto il corpo docente nell’elaborazione del Piano di offerta formativa, e il coinvolgimento delle famiglie.

Sulla stessa linea sono due progetti recenti attivati dal MIUR: il progetto I Care – 2007/09 –, percorso di formazione, riflessione e ricerca a livello nazionale, rivolto a reti di scuole, con un ruolo protagonista, intorno ai temi della disabilità, e il progetto Icf, in una prospettiva culturale bio-psico-sociale, non più sanitaria.

A - Obiettivo di I Care – acronimo di Imparare Comunicare Agire in una Rete Educativa – «è di promuovere, dalle scuole statali dell’infanzia agli istituti superiori, sistematiche azioni di formazione dei docenti e dei dirigenti per l’integrazione scolastica e sociale di ragazzi con disabilità e, più in generale, per realizzare un’effettiva dimensione inclusiva della scuola italiana », valorizzando la professionalità di ciascuno e la ricaduta dell’esperienza di formazione in ciascuna scuola.

B - Analogo disegno formativo ha il Progetto Icf – dal modello Icf dell’Oms alla progettazione per l’inclusione – del 2011. International Classification of Functioning, Health and Desease (Oms, 2001) è una classificazione sistematica per parlare dello stato di salute di una persona, secondo una concezione che tenendo insieme gli aspetti fisici, psicologici e socioculturali, ne sottolinei la dipendenza dall’interscambio con l’ambiente.

C - Classificazione internazionale delle malattie (Icd, 1970): il focus è sull’aspetto eziologico della patologia; segue la Classificazione internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap (Icidh, 1980): non più solo sulla malattia e sulla menomazione, sposta l’attenzione sulle conseguenze delle malattie, che possono compromettere il ruolo sociale e gli aspetti relazionali, secondo la sequenza menomazione-disabilità-handicap. Nell’Icf (e versione 2007 Icf-Cy, specifica per bambini e adolescenti) l’accento si sposta sulla funzione, per esempio mentale, sensoriale, etc., e sulle condizioni ambientali, che possono facilitare o inibire la funzione; la parola handicap viene abbandonata, per un uso più estensivo del termine disabilità. Il progetto formativo è rivolto a reti di scuole per «individuare le modalità di applicazione della cultura del modello Icf nella scuola».

Già dagli anni ’90, con la L. 162 T.U.D.P.R. 309/90 sulle tossicodipendenze, si era cominciato a investire la scuola, come comunità educativa globale, di compiti di educazione alla salute e di prevenzione di condotte a rischio. Si attivarono i Centri informazione e consulenza, la consulenza psicologica per adolescenti e per genitori, l’educazione sessuale, più recentemente l’educazione all’intercultura, alla diversità, alla legalità. L’aumento di richieste nei confronti della scuola sembra andare di pari passo con la marginalizzazione e il discredito intorno a quello che la scuola insegna.

Oggi, dunque, la scuola naviga in un burrascoso processo di rinnovamento istituzionale, inevitabile per la trasformazione di tutti i contesti di riferimento: sapere scientifico, culture delle nuove leve di alunni e famiglie, contesti professionali e di territorio. La dimensione autoreferenziale dell’istituzione deve lasciare spazio a un servizio pubblico più capace di interpretare nuovi bisogni e di dare risposte più efficaci per una scuola inclusiva. Chi scrive ha partecipato negli anni a numerosi programmi di prevenzione e promozione della salute mentale attivati dall’Asl Milano, per alunni, genitori e insegnanti. Ultimo( 20-07-09), il progetto di Psicologia scolastica, innovativo perché non proposto dall’Asl, ma elaborato da una rete di 33 scuole primarie e secondarie (finanziamento 285/97). La scuola dell’autonomia e dell’inclusione riflette sul proprio funzionamento organizzativo, su quello che rappresenta nel territorio e nell’immaginario collettivo, sui ruoli professionali e la qualità delle relazioni a tutti i livelli. Non più psicologia nelle scuole con obiettivi riparativi, ma per lavorare su quel sapere psicologico che serve al raggiungimento degli obiettivi dei Piani di offerta educativa delle singole scuole, sulla base della domanda espressa. Sentirsi inclusi viene dall’esperienza di appartenere a una comunità che lavora per comprendere e soddisfare i bisogni di tutti, diversi ma ugualmente essenziali. Sembra il contrario del funzionamento di un’istituzione autoreferenziale. Il cammino d’innovazione non è lineare, né facili le condizioni in cui oggi la scuola si trova.

Infine, abbiamo rilevato dei cambiamenti: minore centratura sul caso problematico, aumento di interesse per le dinamiche relazionali e la comunicazione con le famiglie, maggiore condivisione degli aspetti organizzativi istituzionali e del lavoro di gruppo. Le criticità non sono dissimili da quelle delineate dal progetto I Care (Ferraboschi, 2009): autoreferenzialità di alcune scuole, difficoltà di promuovere la ricaduta dell’esperienza di formazione su tutta la scuola; difficoltà organizzative per turn-over di docenti e dirigenti, pluralità di iniziative poco ricomponibili in un sistema coerente, non facile collaborazione con i dirigenti scolastici, e anche fatica del cambiamento come processo possibile, limitato e verificabile rispetto ad aspirazioni più astratte di rinnovamento generale. Criticità importante per il nostro tema, rilevata dal progetto I Care: il permanere di una tendenza a delegare la disabilità all’insegnante di sostegno e lo stentato coinvolgimento dei collegi docenti e dei docenti curricolari nel tema “integrazione”, che si tende ancora a marginalizzare. La bontà di esperienze circoscritte stenta a diventare patrimonio culturale diffuso.

Criticità permangono anche nell’area della collaborazione con le famiglie, senza le quali buoni piani educativi individuali e di orientamento al lavoro non sono immaginabili. Ma, al di là delle affermazioni di principio, tutti siamo colpiti dall’acredine e dalla violenza degli scontri tra genitori e docenti, che trovano quasi quotidianamente una risonanza inquietante da parte dei media.

Le famiglie delegano più di prima alla scuola funzioni educative, i docenti vorrebbero una maggiore partecipazione. Rivendicazioni e sentimenti di colpa per un gioco ostile di rimbalzo di responsabilità che compromette la possibilità di un patto educativo veramente utile ai giovani. Paradossalmente un docente che si accorga di una difficoltà di un alunno, teme che parlarne con i genitori significhi manifestare critica e disapprovazione, piuttosto che sollecitudine e ricerca di alleanza per affrontare il problema. I movimenti difensivi della colpa, della delega, della pretesa prevalgono sull’esame di realtà. Nel caso della disabilità, una franca collaborazione è ancor meno facile, perché il circuito “colpa, impotenza, rivendicazione, pretesa” è anche più impellente, poiché la disabilità evoca storicamente fantasmi molto pesanti, insieme a un attuale, reale corredo di dolore e di limitazione.

Una ricerca recente sul “fallimento collusivo nel rapporto tra insegnanti e genitori di alunni disabili” (Langher et. al., 2010), aiuta a chiarire quello che avviene non raramente tra insegnanti e genitori di alunni disabili, per i quali si parla di “simbolizzazione molto aggressiva del rapporto con la scuola” espressa dalla pretesa che la scuola offra più servizi, più sostegno, più ausili e dalla convinzione che comunque quel che fa non basta mai.

In un clima di sospetto questi genitori si sentono legittimati a diffidare e a controllare l’operato dei docenti con modalità molto fantasiose. Il mancato sviluppo delle risorse personali dei figli, viene attribuito all’incapacità degli insegnanti, un buon numero dei quali risponde con atteggiamenti riparativi e ipercomprensivi, aumentando l’impegno oltre il dovuto per cercare di soddisfare anche richieste improprie. Le dinamiche descritte non sono presenti nel campione di genitori che frequentano gruppi e associazioni di sostegno. Nella ricerca si ravvisa, nella normativa sui disabili a partire dagli anni ’70, una cultura sociale «prodotto e strumento di un agito del senso di colpa» in rapporto all’essere sani/essere malati; di qui un’attitudine risarcitoria e una reiterazione delle affermazioni di principio sulla responsabilità delle istituzioni (la scuola) nel rimuovere «le condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della persona umana e il raggiungimento della massima autonomia possibile... » (104/92, art.1, c.2). Se i desideri non si avverano, è colpa di qualcuno, i diritti sono stati violati, e perpetuare il conflitto sembra il solo modo per tenere lontano il dolore e la sofferenza davanti all’altro danneggiato, dolore che solo può essere lenito da un buono, reale e ragionevole recupero.

I gruppi di discussione tra genitori e docenti, spesso in preda a una reciproca simbolizzazione aggressiva, condotti dagli psicologi del progetto di Psicologia scolastica, hanno concluso i loro incontri con il vissuto di “una piacevole scoperta”, l’esperienza di vedere al di là dell’oscurità del livore e dell’astio, la luce tersa che permette di riconoscere problemi e di ricercare soluzioni solidali. Con un po’ di scoraggiamento potremmo dire che la cultura della colpa, dei diritti calpestati, delle relazioni di prevaricazione e di potere connota un po’ tanto il nostro vivere sociale oggi; con fiducia diciamo che se questi eventi non emergono e non si analizzano, resteremo preda della coazione a ripetere, invece di cercare scambi e relazioni che ci rendano più contenti perché più costruttivi.

 
 
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