La scuola può
svolgere un ruolo
di fondamentale
importanza
nel favorire la tutela
della salute mentale.
L’incremento
degli insegnanti
di sostengo
e i progetti educativi
ideati negli ultimi
anni lo dimostrano.
Ma il processo
di integrazione
dei disabili necessita
di un ulteriore
sprint, proprio
nell’attuale processo
di rinnovamento
istituzionale.
Per l’universo infantile e adolescenziale la scuola
è la più estesa organizzazione sociale non
specializzata alle prese con tutti i soggetti che
presentano disagio, sofferenza mentale, handicap
psicofisico, disabilità, disturbo psichiatrico, malattia
mentale, e via elencando. L’Organizzazione mondiale
della sanità da anni insiste sulla fondamentale
importanza della scuola per la tutela della salute
mentale, dando ormai per scontato che ogni Paese
debba avere una politica di promozione della salute
mentale nella scuola e ogni scuola debba avere attività
di promozione nei suoi piani educativi.
Il nostro Paese ha una legislazione tra le più avanzate
per l’inclusione dei disabili nelle scuole di ogni
ordine e grado; per fare il punto della situazione oggi,
si può partire dalla L. 517/77, che ha soppresso
le classi differenziali e le scuole speciali, nel clima
della legge Basaglia, avviando un processo di cambiamento
culturale, pedagogico e di politica sanitaria.
Da sempre le alterazioni della mente o del corpo
hanno minacciato il fragile, confuso modello di
“normalità” a cui ci si aggrappa, per allontanare sensi
di colpa e angosce generate dal fantasma del diverso
e dell’ignoto. La storia delle restrizioni di libertà
e di diritti, di emarginazione della diversità –
manicomi, carceri, ricoveri, istituti, collegi, scuole
speciali, etc. – è lunga quanto la storia dell’uomo, e,
ancor oggi, stigma e discriminazione sono ostacoli
che le persone con disturbi mentali si trovano ad affrontare.
Il rispetto dei diritti delle minoranze misura
il livello civile di una comunità e coinvolge più
versanti: psicologico, biologico, educativo, scolastico,
sociale, e anche etico e politico.
«Crescenti evidenze dimostrano che
gli antecedenti dei disordini mentali
degli adulti si possono trovare nei
bambini e negli adolescenti... Continuare
a trascurare i bisogni di salute
mentale dei bambini e degli adolescenti
è inaccettabile e deve finire»
(Child Mental Health Atlas, Who
2005). «Non c’è salute senza salute
mentale» (Prince M. et al., 2007).
Quando si parla di disagio psichico
a scuola, è necessario chiarire di cosa
stiamo parlando. Molte volte è nella
scuola che si manifestano difficoltà
nei comportamenti e nelle relazioni
all’origine di deludenti prestazioni
scolastiche, generando disagio e sofferenza
nelle famiglie e negli insegnanti,
in assenza di una cultura dell’alleanza
per trovare soluzioni al problema.
Spesso gli insegnanti osservano
che il problema di una classe non è
“l’handicappato riconosciuto” ma
«tanti altri casi che non siamo attrezzati
a gestire...».
Nelle scuole del Paese, nell’anno
scolastico 2010/11 (fonte: MIUR Direzione
generale per gli studi, la statistica
e i sistemi informativi), gli alunni
disabili sono 208.521, il 2,3%
sull’intera popolazione scolastica,
con un incremento del 50,9% negli ultimi
dieci anni; il 92% frequenta la
scuola statale. Per le tipologie di disabilità,
è stata disaggregata la categoria
disabilità psico-fisica in intellettiva e
motoria. La voce “altra disabilità” –
21,4% – include gli alunni con problemi
psichiatrici precoci, disturbi specifici
di apprendimento, se certificati in
comorbilità con altri disturbi, sindrome
da deficit di attenzione e iperattività
(Adhd). La disabilità intellettiva è il
69,1% del totale dei disabili.
I docenti di sostegno statali sono
passati dai 65.615 – l’8% tra tutti i docenti
– del 2000/01 ai 94.506 del
2010/11 – il 12,1%. Attualmente la
media nazionale è di uno per due
alunni disabili. Per dare un peso al disagio
psichico nella scuola: il 20-25%
della popolazione di età superiore ai
18 anni, nel corso di un anno, soffre
di almeno un disturbo mentale clinicamente
significativo (De Girolamo,
Tansella, 2001), e pur nella disomogeneità
dei criteri e delle specificità, la
popolazione in età evolutiva con un
disturbo diagnosticabile in un anno
(Dsm IV), è intorno al 20% (Roth e
Fonagy 1997, Nardocci 2001).
C’è poi l’area della cosiddetta “sofferenza
scolastica”: i dati più recenti
sulla dispersione, indicano (Censis
2011) attorno al 19% (5 anni fa 22%)
i giovani tra i 18 e i 24 anni con licenza
media che non partecipano ad alcuna
attività di educazione/formazione;
meno dell’1% non hanno la licenza
media. I Neet, 15-29enni che non
studiano e non lavorano, sono oltre il
22%. Se tra i 12 e i 14 anni è presente
un disturbo psicologico, è altamente
probabile che lo si ritrovi a 16-18; gli
anni della scuola secondaria sono i
più a rischio per break down evolutivo,
esordio di psicopatologia grave, condotte
devianti.
La problematica del disagio psicologico
che la scuola affronta è ben più
ampia della patologia “certificata”.
Per il successo formativo allora, quali
buone pratiche educative devono arricchire
il tradizionale mandato della
trasmissione del sapere, per formare
cittadini attrezzati a vivere in una società
fondata sulla conoscenza e in
contesti di vita sempre più complessi
e difficili da interpretare?
Alla L. 517/77 è seguita una messe
di interventi normativi per calare nella
realtà affermazioni di principio e dichiarazioni
ideali, per attrezzare la
scuola al riscatto culturale e sociale
anche per i più svantaggiati. Nelle
produzioni del ministero della Pubblica Istruzione, del ministero della Salute,
delle Regioni, delle Aziende sanitarie,
delle Province, dei Comuni, degli
Uffici scolastici regionali e provinciali,
delle Istituzioni scolastiche autonome,
non è facile rintracciare gli aspetti
innovativi, e l’effettivo processo di
integrazione. Nel 2009 appaiono le
“Linee Guida” per l’integrazione scolastica
degli alunni disabili, con
l’obiettivo di “rilanciare il tema in
questione, punto forte della tradizione
pedagogica italiana”. Nella prima
parte si svolge l’analisi dei cambiamenti
culturali della storia legislativa.
In tutti i documenti si parte dai diritti
costituzionali di libertà e uguaglianza,
dalla L. 118 del 1971 che comincia
a parlare di inserimento nelle
classi comuni, per trovare nella citata
L. 517/77 indicazioni più concrete:
docente di sostegno, responsabilità
dell’intero Consiglio
di classe. Nel
decennio successivo
(1987) la sentenza
n. 215 della
Corte Costituzionale
sancisce
il diritto pieno e
incondizionato
di tutti i disabili,
qualunque ne sia
la minorazione o
il grado di complessità,
alla frequenza
in tutti i livelli di scuola.
La CM del 1988 recepisce la sentenza
della CC, e diviene riferimento fondamentale
per la normativa successiva,
con indicazioni attive per realizzare
«l’effettività del diritto allo studio
di alunni con handicap di qualunque
tipologia in ogni ordine e grado di
scuola». Si istituiscono: gruppi di lavoro
nei Consigli scolastici distrettuali
con UU.SS.LL., Enti Locali rappresentanti
di associazioni ed enti del territorio,
profilo dinamico funzionale, presidi
assistenziali; la scuola secondaria
non può limitarsi alla semplice “socializzazione
in presenza”, ma deve garantire
di regola apprendimenti rapportabili
all’indirizzo di studi; se il livello
è troppo lontano, sarà riconosciuto
da un attestato di frequenza
senza effetti legali, che può servire
per la formazione professionale.
La Legge quadro 104/1992 riorganizza
tutta la normativa precedente, e
diviene il nuovo punto di riferimento.
Si legge (art.12, c.3): «L’integrazione
scolastica ha come obiettivo lo sviluppo
delle potenzialità della persona
handicappata nell’apprendimento,
nella comunicazione, nelle relazioni
e nella socializzazione»; e (c.4):
«L’esercizio del diritto all’educazione
e all’istruzione non può essere impedito
da difficoltà di apprendimento
né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità
connesse all’handicap».
Nel 1993, la
Convenzione
Onu sposta il focus
dal deficit e
dalla minorazione
alla dimensione
sociale e al
contesto di vita,
determinante
per l’esperienza
che ciascuno fa
della propria
condizione di salute.
«La disabilità
è il risultato dell’interazione tra persone
con menomazioni e barriere
comportamentali e ambientali, che
impediscono la loro piena ed effettiva
partecipazione alla società su base di
uguaglianza con gli altri»
(Preambolo,
punto e).
Si parla di “accomodamento ragionevole”
per quanto il contesto può attivare,
in merito ad ambienti, procedure,
strumenti educativi e ausili, per
una piena inclusione sociale. Nel
1971 la Dichiarazione dell’Onu parlava
di “sub-normale mentale”.
Le Linee Guida affrontano poi
aspetti organizzativi, gestionali e metodologici
di una scuola che, per non
essere discriminante, deve assumersi
la finalità del successo formativo per
tutti gli alunni. Si parla di reti di scuole,
governance, ruolo del Dirigente e
leadership, cooperazione e corresponsabilità
dei team docenti, flessibilità,
completamento del Pei con il Progetto
di vita, primato dell’apprendimento,
collaborazione con la famiglia,
imprescindibile per il successo
formativo. La Dichiarazione di intenti
del Gruppo di lavoro interistituzionale
regionale lombardo (Glir, 2011),
recepisce dalla Convenzione Onu
2006 che quello di disabilità è un concetto
in continua evoluzione, e per
questo è opportuno parlare non solo
di gravità, ma anche di complessità,
per cogliere meglio il nesso tra bisogni
e risposte necessarie, particolarmente
in età evolutiva, ove per l’interazione
continua tra i diversi elementi
secondo modalità non lineari, si richiedono
continui aggiustamenti di
strategie in corso d’opera.
Le Linee Guida per l’inclusione della
disabilità sono dunque motore di
cambiamento per una scuola che cerca
di innovare la qualità del proprio
servizio. Altro forte cambiamento di
prospettiva era stato già avviato
dall’autonomia scolastica (L. 59/97),
che rovesciando il rapporto tra leggi,
decreti, circolari, programmi e azioni
gestionali organizzative, culturali, didattiche
di ogni singolo istituto nel
proprio territorio/contesto, aveva rafforzato
l’assunzione di responsabilità
di tutto il corpo docente nell’elaborazione
del Piano di offerta formativa, e
il coinvolgimento delle famiglie.
Sulla stessa linea sono due progetti
recenti attivati dal MIUR: il progetto I
Care – 2007/09 –, percorso di formazione,
riflessione e ricerca a livello nazionale,
rivolto a reti di scuole, con
un ruolo protagonista, intorno ai temi
della disabilità, e il progetto Icf, in
una prospettiva culturale bio-psico-sociale,
non più sanitaria.
A - Obiettivo di I Care – acronimo di
Imparare Comunicare Agire in una
Rete Educativa – «è di promuovere,
dalle scuole statali dell’infanzia agli
istituti superiori, sistematiche azioni
di formazione dei docenti e dei dirigenti
per l’integrazione scolastica e sociale
di ragazzi con disabilità e, più in
generale, per realizzare un’effettiva
dimensione inclusiva della scuola italiana
», valorizzando la professionalità
di ciascuno e la ricaduta dell’esperienza
di formazione in ciascuna scuola.
B - Analogo disegno formativo ha il
Progetto Icf – dal modello Icf
dell’Oms alla progettazione per l’inclusione
– del 2011. International Classification
of Functioning, Health and Desease
(Oms, 2001) è una classificazione
sistematica per parlare dello stato
di salute di una persona, secondo una
concezione che tenendo insieme gli
aspetti fisici, psicologici e socioculturali,
ne sottolinei la dipendenza
dall’interscambio con l’ambiente.
C - Classificazione internazionale
delle malattie (Icd, 1970): il focus è
sull’aspetto eziologico della patologia;
segue la Classificazione internazionale
delle menomazioni, delle disabilità
e degli handicap (Icidh, 1980): non
più solo sulla malattia e sulla menomazione,
sposta l’attenzione sulle conseguenze
delle malattie, che possono
compromettere il ruolo sociale e gli
aspetti relazionali, secondo la sequenza
menomazione-disabilità-handicap.
Nell’Icf (e versione 2007 Icf-Cy, specifica
per bambini e adolescenti) l’accento
si sposta sulla funzione, per
esempio mentale, sensoriale, etc., e
sulle condizioni ambientali, che possono
facilitare o inibire la funzione; la
parola handicap viene abbandonata,
per un uso più estensivo del termine
disabilità. Il progetto formativo è rivolto
a reti di scuole per «individuare le
modalità di applicazione della cultura
del modello Icf nella scuola».
Già dagli anni ’90, con la L. 162
T.U.D.P.R. 309/90 sulle tossicodipendenze,
si era cominciato a investire la
scuola, come comunità educativa globale,
di compiti di educazione alla salute
e di prevenzione di condotte a rischio.
Si attivarono i Centri informazione
e consulenza, la consulenza psicologica
per adolescenti e per genitori,
l’educazione sessuale, più recentemente
l’educazione all’intercultura,
alla diversità, alla legalità. L’aumento
di richieste nei confronti della scuola
sembra andare di pari passo con la
marginalizzazione e il discredito intorno
a quello che la scuola insegna.
Oggi, dunque, la scuola naviga in un burrascoso processo di rinnovamento
istituzionale, inevitabile per la
trasformazione di tutti i contesti di riferimento:
sapere scientifico, culture
delle nuove leve di alunni e famiglie,
contesti professionali e di territorio.
La dimensione autoreferenziale
dell’istituzione deve lasciare spazio a
un servizio pubblico più capace di interpretare
nuovi bisogni e di dare risposte
più efficaci per una scuola inclusiva.
Chi scrive ha partecipato negli anni
a numerosi programmi di prevenzione
e promozione della salute mentale
attivati dall’Asl Milano, per alunni,
genitori e insegnanti. Ultimo(
20-07-09), il progetto di Psicologia
scolastica, innovativo perché non proposto
dall’Asl, ma elaborato da una rete
di 33 scuole primarie e secondarie
(finanziamento 285/97). La scuola
dell’autonomia e dell’inclusione riflette
sul proprio funzionamento organizzativo,
su quello che rappresenta nel
territorio e nell’immaginario collettivo,
sui ruoli professionali e la qualità
delle relazioni a tutti i livelli. Non più
psicologia nelle scuole con obiettivi riparativi,
ma per lavorare su quel sapere
psicologico che serve al raggiungimento
degli obiettivi dei Piani di offerta
educativa delle singole scuole, sulla
base della domanda espressa. Sentirsi
inclusi viene dall’esperienza di appartenere
a una comunità che lavora per
comprendere e soddisfare i bisogni di
tutti, diversi ma ugualmente essenziali.
Sembra il contrario del funzionamento
di un’istituzione autoreferenziale.
Il cammino d’innovazione non è
lineare, né facili le condizioni in cui
oggi la scuola si trova.
Infine, abbiamo rilevato dei cambiamenti:
minore centratura sul caso problematico,
aumento di interesse per le
dinamiche relazionali e la comunicazione
con le famiglie, maggiore condivisione
degli aspetti organizzativi istituzionali
e del lavoro di gruppo. Le criticità
non sono dissimili da quelle delineate
dal progetto I Care (Ferraboschi,
2009): autoreferenzialità di alcune
scuole, difficoltà di promuovere la
ricaduta dell’esperienza di formazione
su tutta la scuola; difficoltà organizzative
per turn-over di docenti e dirigenti,
pluralità di iniziative poco ricomponibili
in un sistema coerente,
non facile collaborazione con i dirigenti
scolastici, e anche fatica del cambiamento
come processo possibile, limitato
e verificabile rispetto ad aspirazioni
più astratte di rinnovamento generale.
Criticità importante per il nostro
tema, rilevata dal progetto I Care:
il permanere di una tendenza a delegare
la disabilità all’insegnante di sostegno
e lo stentato coinvolgimento dei
collegi docenti e dei docenti curricolari
nel tema “integrazione”, che si tende
ancora a marginalizzare. La bontà
di esperienze circoscritte stenta a diventare
patrimonio culturale diffuso.
Criticità permangono anche
nell’area della collaborazione con le
famiglie, senza le quali buoni piani
educativi individuali e di orientamento
al lavoro non sono immaginabili.
Ma, al di là delle affermazioni di principio,
tutti siamo colpiti dall’acredine
e dalla violenza degli scontri tra genitori
e docenti, che trovano quasi quotidianamente
una risonanza inquietante
da parte dei media.
Le famiglie delegano più di prima
alla scuola funzioni educative, i docenti
vorrebbero una maggiore partecipazione.
Rivendicazioni e sentimenti
di colpa per un gioco ostile di rimbalzo
di responsabilità che compromette
la possibilità di un patto educativo
veramente utile ai giovani. Paradossalmente
un docente che si accorga
di una difficoltà di un alunno, teme
che parlarne con i genitori significhi
manifestare critica e disapprovazione,
piuttosto che sollecitudine e ricerca
di alleanza per affrontare il problema.
I movimenti difensivi della colpa,
della delega, della pretesa prevalgono
sull’esame di realtà. Nel caso
della disabilità, una franca collaborazione
è ancor meno facile, perché il
circuito “colpa, impotenza, rivendicazione,
pretesa” è anche più impellente,
poiché la disabilità evoca storicamente
fantasmi molto pesanti, insieme
a un attuale, reale corredo di dolore
e di limitazione.
Una ricerca recente sul “fallimento
collusivo nel rapporto tra insegnanti
e genitori di alunni disabili” (Langher
et. al., 2010), aiuta a chiarire
quello che avviene non raramente tra
insegnanti e genitori di alunni disabili,
per i quali si parla di “simbolizzazione
molto aggressiva del rapporto con
la scuola” espressa dalla pretesa che la
scuola offra più servizi, più sostegno,
più ausili e dalla convinzione che comunque
quel che fa non basta mai.
In un clima di sospetto questi genitori
si sentono legittimati a diffidare e
a controllare l’operato dei docenti
con modalità molto fantasiose. Il mancato
sviluppo delle risorse personali
dei figli, viene attribuito all’incapacità
degli insegnanti, un buon numero dei quali risponde con atteggiamenti riparativi
e ipercomprensivi, aumentando
l’impegno oltre il dovuto per cercare
di soddisfare anche richieste improprie.
Le dinamiche descritte non sono
presenti nel campione di genitori
che frequentano gruppi e associazioni
di sostegno. Nella ricerca si ravvisa,
nella normativa sui disabili a partire
dagli anni ’70, una cultura sociale
«prodotto e strumento di un agito del
senso di colpa» in rapporto all’essere
sani/essere malati; di qui un’attitudine
risarcitoria e una reiterazione delle
affermazioni di principio sulla responsabilità
delle istituzioni (la scuola)
nel rimuovere «le condizioni invalidanti
che impediscono lo sviluppo della
persona umana e il raggiungimento
della massima autonomia possibile...
» (104/92, art.1, c.2). Se i desideri
non si avverano, è colpa di qualcuno, i
diritti sono stati violati, e perpetuare il
conflitto sembra il solo modo per tenere
lontano il dolore e la sofferenza
davanti all’altro danneggiato, dolore
che solo può essere lenito da un buono,
reale e ragionevole recupero.
I gruppi di discussione tra genitori e
docenti, spesso in preda a una reciproca
simbolizzazione aggressiva, condotti
dagli psicologi del progetto di Psicologia
scolastica, hanno concluso i loro
incontri con il vissuto di “una piacevole
scoperta”, l’esperienza di vedere al
di là dell’oscurità del livore e
dell’astio, la luce tersa che permette di
riconoscere problemi e di ricercare soluzioni
solidali. Con un po’ di scoraggiamento
potremmo dire che la cultura
della colpa, dei diritti calpestati, delle
relazioni di prevaricazione e di potere
connota un po’ tanto il nostro vivere
sociale oggi; con fiducia diciamo
che se questi eventi non emergono e
non si analizzano, resteremo preda
della coazione a ripetere, invece di cercare
scambi e relazioni che ci rendano
più contenti perché più costruttivi.