Non sarebbe meglio dire che dogmi come la risurrezione sono un mistero non comprensibile dall’uomo? O non pubblicare certe domande che suscitano dubbi nelle anime semplici? Tanti teologi dovrebbero andare di più fra la gente.
RENZO F.
Un modo di “stare fra la gente” è anche intercettare le domande di senso che albergano nei cuori e nelle menti delle persone. La fede è anche un percorso di conoscenza e di approfondimento di ciò che crediamo, perché l’uomo non è fatto solo di cuore e di sentimenti, di volontà e di scelte, ma è anche dotato di una mente pensante e di intelligenza. Chiesa in uscita è anche questo: una comunità che non rimandi a una fede cieca, che è il miglior viatico del fondamentalismo. Che poi la fede semplice sia da salvaguardare è un imperativo etico di ogni teologo. San Tommaso d’Aquino non solo non disdegnava le dispute accademiche, ma neppure la predicazione al popolo di Dio, nella quale cercava per esempio di spiegare i diversi articoli del Simbolo apostolico, con linguaggio semplice (pare in dialetto napoletano). In una di quelle prediche ebbe a dire che una vecchietta credente in Cristo su ciò che è essenziale alla vita eterna ne sa più di tutti i filosofi prima di Cristo. Coltivare il “pensiero nella fede” è un compito imprescindibile per il cristiano, chiamato a rispondere alle sfide di quanti pongono domande ed esigono risposte, che se non portano all’atto di fede fanno pensare e aprono alla domanda di senso. Il mistero, per essere adorato, deve essere anche pensato e vissuto.