Omar Hussein, che si è fatto conoscere come Abu Saed al-Britani (Ansa).
Per quanto sembri crudele dirlo, i proclami del terrorista inglese Abu Saed al-Britani ci stanno spaventando più dell’assassinio dell’altro inglese, l’autista e cooperante Alan Henning. Non perché siamo diventati disumani ma, al contrario, perché siamo ancora umani: e il viso scoperto di un uomo che si mostra al mondo per dire che ci odia ci colpisce più del viso coperto di un boia che sente il bisogno di nascondersi. Il viso scoperto è quello di una persona come noi, di un tizio qualunque che potrebbe essere nostro vicino di casa, collega in ufficio, cliente dello stesso bar. Il viso coperto è quello di una minaccia micidiale ma anonima, quindi indefinita.
Al Britani (il cui vero nome è Omar Hussein), come abbiamo scoperto, lavorava in un supermercato alle porte di Londra. Non aveva una particolare storia di fanatismo né di militanza. La polizia inglese l’aveva fermato nel 2013 quando stava per prendere un aereo per il Pakistan, ma l’aveva rilasciato senza muovergli alcuna accusa. Nel gennaio di quest’anno Omar è sparito, per ricomparire solo qualche giorno fa, nel video in cui minaccia i suoi ex concittadini.
Nella sua improvvisa notorietà c’è, però, un profondo risvolto politico. Facendosi riconoscere, Omar ha regalato tracce preziose ai servizi segreti inglesi e non solo. Si potrà indagare sugli ambienti che frequentava, sulle persone che conosceva. Magari anche scoprire uno dei canali che portano i volontari della jihad dall’Europa al Medio Oriente. I terroristi dell’Isis sono orrendi ma forse non stupidi, non possono non saperlo. Dobbiamo quindi chiederci perché si siano lasciati così andare.
Forse si sentono sicuri. Capaci di sfidare non solo Obama, gli Usa e la coalizione di 40 Paesi che si è raccolta per combatterli. Hanno appena conquistato la città curda di Kobane, in Siria ma ai confini con la Turchia, e quella di Kubaisa, nel governatorato di Anbar, in Iraq. O forse vogliono farcelo credere, impressionarci, instillare ulteriore timore, e con quello attrarre nuovi proseliti. Rivelando, in questo modo, la capacità di combattere una “guerra di propaganda” tutt’altro che rozza o improvvisata.
Proprio questa considerazione, oltre ovviamente alle due recentissime sconfitte sul campo, stanno convincendo molti esperti di ciò che alcun alti gradi militari dicevano già da tempo: i soli bombardamenti, per quanto mirati e intensi, non basteranno a disperdere i reparti dell’Isis. Se davvero vogliamo eliminare i miliziani del califfato islamico bisognerà combattere sul terreno. Impiegare soldati in Iraq (e forse anche in Siria, dove però Assad si opporrebbe) e prepararsi a vederne molti tornare nelle bare.
Siamo disposti a farlo? O abbiamo timore di ripetere il fiasco dell’Iraq? E se questa fosse la strada da intraprendere, quanti dei 40 Paesi ora alleati degli Usa sarebbero disposti a dare un contributo concreto? Sono domande a cui, prima o poi, bisognerà rispondere.