La persona chiamata quest’anno a fare la predica al Papa per la Quaresima è un frate dell’Ordine dei Servi di Maria piuttosto gioviale che di primo acchitto, appena lo incontri, ti comunica subito che il Dio che predica lo ha incontrato davvero. Padre Ermes Ronchi, 68 anni, parroco di San Carlo al Corso, la basilica neoclassica di Corso Vittorio Emanuele a Milano, tra San Babila e il Duomo, che con le sue colonne imponenti e i motivi circolari ammicca al Pantheon di Roma, è discepolo di padre David Maria Turoldo che da Dio ebbe due doni: la fede e la forza di cantarla ogni giorno con la poesia. «Desidera un bicchiere di vino?», dice subito in omaggio alle sue origini friulane dove torna spesso nella casa dove è nato ad Attimis, minuscolo borgo in provincia di Udine al confine con la Slovenia («è un luogo che mi rigenera, un luogo di ricominciamenti»).
Prima di Natale papa Francesco, con lo stile consueto, ha alzato la cornetta del telefono e lo ha chiamato: «Posso chiederle un favore? Verrebbe a predicare gli esercizi spirituali?». Padre Ronchi ha tergiversato per un attimo, colto da sorpresa. E Francesco: «Iniziamo domenica 6 marzo a pomeriggio e finiamo venerdì 11. Vuole controllare la sua agenda per vedere se è libero?». Bergoglio, riflette Ronchi, «ha uno stile spiazzante che te lo fa sentire autentico. Poteva far chiamare un suo collaboratore. Questo Papa è l’uomo risolto, realizzato, in tutti i sensi. Se un uomo così, a 79 anni, con tutte le cose da fare che ha, comunica questa vitalità fa subito pensare: “Però, questo Vangelo. Deve essere proprio vero se dà tutta questa forza, libertà ed energia. Francesco è il testimone del Dio affidabile».
Cosa significa per un discepolo di Turoldo, che pure si scontrò con le gerarchie, andare a predicare al Papa?
«Turoldo come tutti i profeti era in anticipo sui tempi. Ha forzato l’aurora della Chiesa con la sua poesia, l’irruenza, le intuizioni e la capacità di stare sulle frontiere e abitarne i problemi. L’unico suo film s’intitola Gli ultimi. E papa Francesco non ha come interlocutore privilegiato l’ultimo, il povero, lo scarto? Non so se il Papa conosce gli scritti di Turoldo, gli porterò alcune sue poesie. Turoldo era un fornitore di sogni, negli esercizi cercherò di trasmetterne un po’».
Quali poesie porterà a Francesco?
«Ci sono alcuni versi sul Cristo che dicono: “Io non sono ancora il Cristo / io non sono ancora / e mai un uomo / io sono questa / infinità / possibilità”. Stupendo! È la trasfigurazione della persona in Cristo che è lo scopo di tutta la vita cristiana. E un altro verso dice così: “Figlio di Dio e uomo come noi / impossibile amarti impunemente”. Impunemente, cioè senza pagarne il prezzo in moneta di vita, in gioia e anche pena, in emozione e dolore. A volte basta l’intuizione di un verso brevissimo per aprire squarci».
Padre Ermes Ronchi mentre celebra la messa nella Basilica di San Carlo a Milano (foto Fabrizio Annibali)
Su cosa baserà la sua riflessione?
«Sa quante domande ci sono in totale nel Vangelo? Duecentoventi. Partirò da quelle nude domande. Dalla prima quando Gesù a quei due discepoli che hanno lasciato Giovanni per andargli dietro, si volta e dice: “Ma voi che cosa cercate?”. Questa è una grande domanda per trovare sé stessi. Fino all’ultima: “Simone, mi vuoi bene? Mi ami davvero?”. Le domande mettono in moto, avviano processi mentre le risposte, in un certo senso, chiudono. Papa Francesco nell’Evangelii gaudium sottolinea molto quest’aspetto: oggi la Chiesa deve avviare processi più che occupare spazi di potere».
Che stile avranno i suoi esercizi?
«Non dirò parole che non abbiano fatto soffrire o gioire me per primo perché non sarebbero incarnate, dirò solo parole che mi hanno stretto dentro, inciso, scavato. Solo queste parole che sono diventate carne e sangue sono vere, le altre no. Il predicatore è come un tecnico delle luci in teatro, parto dalla Parola, le giro attorno mettendo una luce di qua e un’altra di là per farla risplendere il più possibile. Alla fine è lo Spirito che ti fa esplodere la Parola di Dio in faccia, come una manciata di luce».
In che modo la spiritualità dei Servi di Maria contagia la sua predicazione?
«Santa Maria è l’immagine conduttrice del nostro pellegrinaggio. È la prima dei credenti. Come nel nostro Dna biologico ci sono tutte le informazioni sul nostro corpo e su ciò che diventeremo, così in Maria c’è il Dna dell’intera Chiesa. È il bambino che impara a vivere guardando la madre e come la madre vive la vita. Origene d’Alessandria, un esegeta del III secolo, dice che l’immagine più vivida, più energica e forte è la Vergine incinta che passa sui monti di Giuda portando una vita dentro di sé. Noi passiamo nel mondo gravidi di Dio, incinti di luce, portando la sua luce. Il cristiano, ogni cristiano, vive sempre due vite: la propria e quella di Dio in sé. Più Dio c’è in me, più sono io. Dobbiamo essere tutti gravidi di Dio, aiutarlo a incarnarsi in questo mondo, tra le strade e le piazze, nelle relazioni».
Lei è molto legato alla sua terra, il Friuli. Esiste una spiritualità friulana?
«Non lo so, se esiste è fatta di sobrietà e solidarietà. Queste sono le due parole che mi sono portato dietro lasciando Attimis quando avevo 10 anni. Sobrietà come dono della potatura. Quando dovevo celebrare la prima messa chiesi a mio papà come avrei dovuto predicare. Lui mi rispose in friulano: “pocjis e che si tocjin”, “poche parole e che si tocchino”. Il terzo elemento della spiritualità friulana è il buon vino. In un’osteria del mio paese hanno messo fuori un cartello: “Guida poco perché devi bere”. La prima cosa che mi chiedono quando torno è: “Ce bevistu?” “Cosa bevi?”. Il vino è comunione, allegria, dono di sé».
In che senso?
«Quando morì mia mamma la sera rientrammo a casa. Eravamo io, mio fratello e mio padre. Stavamo per andare a dormire. Mio fratello ci disse di aspettare: “Vado a prendere una bottiglia di vino”. Restammo spiazzati. E mio fratello risposte: “Se io fossi pittore, avrei fatto un quadro per mia madre, se fossi un poeta, una poesia, siccome sono contadino, tiro fuori il vino migliore che ho fatto”. C’è poesia, sudore, affetto nel vino. Non sarebbe stato lo stesso, come dire, bere un’aranciata».
San Carlo al Corso è una parrocchia atipica, quasi virtuale, stretta com’è tra gli uffici delle banche e le vie dello shopping.
«Su corso Vittorio Emanuele sfreccia una fiumana di gente sempre di corsa. Poi quando entra in chiesa è come se entrasse in una dimensione diversa, rallenta il passo. Si apre una fessura d’infinito e qualcosa può arrivare. Noi vogliamo essere una presenza orante nel cuore della città, una presenza di annuncio evangelico, non si cono battesimi o cresime o comunioni ma ci sono migliaia di persone che arrivano qui e che qualcosa, anzi Qualcuno, trovano. Noi siamo una chiesa con tre braccia: al centro c’è la porta per entrare in chiesa, ai lati quella del gruppo di ascolto e la libreria con il centro culturale. Non è la chiesa che fa la carità ma è la carità che fa la chiesa. Sono le tre soglie con cui vogliamo essere radicati nella città».