(Questa e la foto di copertina sono Unicef/Crowe)
«Siamo di fronte alla crisi più
grave che abbiamo mai affrontato. La nostra visione di una nazione
liberata nella quale tutti i popoli siano uguali e vivano in pace
sembra essere andata in frantumi. Il sangue degli innocenti, a
migliaia, grida dal suolo! Il Signore giudicherà duramente coloro
che continuano a uccidere, stuprare e derubare i suoi figli
innocenti, e ancora più severamente chi incita alla violenza e non
frena la propria avidità di potere».
Lo affermano i vescovi del Sudan e del Sud Sudan in un’Esortazione
pastorale scritta dopo un incontro straordinario che si è tenuto a
Juba dal 21 al 31 gennaio.
I religiosi ricorrono a toni forti
per denunciare quanto accaduto: «Siamo
rimasti scioccati, non possiamo rimanere in silenzio. Gesù non è
venuto per condannare ma per redimere. Anche noi non condanniamo gli
individui, ma il male sì. Chiediamo che i responsabili si pentano e
convertano i loro cuori».
Pertanto, «non ci sono
scuse per non rispettare»
il cessate il fuoco firmato ad Addis Abeba.
Indicano alcune questioni politiche
alla base del conflitto: «Abbiamo assistito – scrivono –
a un aumento delle tensioni nel partito di governo, l’Splm. Il non
aver affrontato questi problemi interni ha giocato un ruolo
significativo nell’inasprirsi dei contrasti prima dell’esplosione
della violenza il 15 dicembre. Nell’Splm serve, con urgenza, una
riforma democratica». E successivamente puntano il dito contro la
corruzione, il nepotismo, la personalizzazione del potere politico,
indicando al contrario la strada da percorrere: riconciliazione
nazionale che deve passare attraverso «il racconto della verità»,
trasparenza e fine dell’impunità per i leader, riforma delle forze
armate e fine dell’utilizzo dei bambini soldato, forte investimento
sulla scolarizzazione per riconciliare i giovani e puntare sulla
costruzione di un’identità comune.
Le Chiese e la società civile
potrebbero aiutare in questo cammino. Pertanto, i vescovi hanno
criticato la decisione dell’Igad di escluderli dai colloqui di pace
di Addis Abeba. La recente storia sudsudanese ha mostrato quale ruolo
positivo possano svolgere, come nel processo per l’indipendenza del
2011 e in precedenti mediazioni. L’ultima è stata conclusa proprio
il 30 gennaio: grazie alla mediazione del Church Leaders
Mediation Initiative (Clmi), un organismo presieduto da monsignor
Paride Taban, vescovo emerito di Torit, è stato firmato un accordo
tra il governo e il generale Yau Yau, dell’etnia minoritaria
muerle, che si combattevano dal 2010.
Di fronte alla crisi umanitaria, i religiosi parlano anche al mondo:
«Rivolgiamo un appello a tutti gli enti e in particolare alla nostra
famiglia di Caritas Internationalis, affinché sostengano in tutti i
modi possibili le comunità più vulnerabili». L’attenzione
particolare è per la diocesi di Malakal, che comprende i tre Stati
di Unity, Jonglei e Alto Nilo, e dove – dice l’Amministratore
apostolico Mons. Roko Taban Musa – «in un mese di combattimenti
sono state distrutte tutte le strutture costruite in otto anni di
sacrifici».
Ma l’ultimo appello dei vescovi è rivolto ai sudsudanesi: «Ora è
tempo di una nuova nazione. Dove
sono i nostri Mandela e Nyerere? Dove sono gli uomini che ci
porteranno a rifondare questa nuova nazione indipendente? Noi
proclamiamo la nostra speranza e attesa che i sudsudanesi si rialzino
da questa crisi».