Chiesa distrutte in Siria. Le fotografie di questo servizio sono dell'agenzia Reuters.
Iraq e Siria: due Paesi,un unico inferno, nel quali quotidianamente i cristiani subiscono violenze di ogni genere. Sono testimonianze drammatiche e dirompenti quelle di padre Douglas Al-Bazi, parroco della chiesa caldea-cattolica di Mar Eillia a Erbil (Iraq) e padre Ibrahim Alsabagh, francescano, parroco della comunità di Aleppo (Siria), entrambi invitati al meeting di Comunicazione e Liberazione a Rimini. In un incontro dal titolo emblematico, Una ragione per vivere e per morire, i martiri di oggi, i due religiosi hanno raccontato alcuni aspetti di una vita quotidiana ai limiti della sopravvivenza, senza però rinunciare a testimoniare come, anche in un contesto così drammatico, la luce di Cristo e la speranza possano orientare il cammino delle comunità.
Il sacerdote iracheno ha esordito con parole durissime: «Se qualcuno pensa che l'Isis non rappresenti il mondo musulmano si sbaglia - ha affermato - L'Isis è invece Islam al 100%: per noi cristiani vivere in mezzo ai musulmani è diventato impossibile». E ha immediatamente rivolto un appello al mondo occidentale: «Quando vi riferite all'Iraq e alla Siria non parlate di conflitto, ma di genocidio. Questa è la sola parola capace di descrivere quanto sta accadendo nei nostri Paesi. Nell'ultimo anno più di 120.000 persone sono state costrette a fuggire, dalla sera alla mattina, senza poter portare con sé nulla».
In Iraq nel 2003 vivevano oltre 2 milioni di cristiani, oggi ne sono rimasti poco più di 200mila. «Sono angosciato - ha raccontato padre Al-Bazi, che ogni giorno rischia la vita - non tanto per me quanto per la mia gente. Vi chiediamo di svegliarvi, vi chiediamo di non dimenticarci, di accogliere nel vostro Paese i cristiani perseguitati e di essere la nostra voce». Il sacerdote ha anche rievocato alcune tremende esperienze personali, come quando, nel 2007 (quindi ben prima dell'arrivo dell'Isis) venne rapito, picchiato e torturato per nove giorni. «Mi tenevano legato con una catena: io avevo trasformato dieci anelli di quella catena in una corona del rosario: il lucchetto era il 'grano' del Padre Nostro». La preghiera che, nonostante tutto, vince sulla sopraffazione, il desiderio di pace sulla violenza: «Non crediamo nella guerra: solo il perdono ci permette di trasferire la grazia da una generazione all'altra».
Altrettanto toccante la testimonianza del siriano padre Alsabagh, che ha tracciato un quadro della situazione ad Aleppo: «Viviamo nell’instabilità, mancano le risorse alimentari, l’acqua, siamo sotto i bombardamenti e le malattie si diffondono. Vengono a chiederci l’acqua in convento. E noi cerchiamo di cogliere in tutto questo i segni dello Spirito, condividendo questa esigenza e altri mille problemi e aprendo a tutti, cristiani e musulmani, le porte del convento». Così anche una Messa celebrata senza interruzioni può diventare un piccolo miracolo: «Con tanta mancanza, non solo dell’acqua ma di tutti i generi di prima necessità, siamo sempre più pieni di gratitudine verso Dio che ci dà molto. Sentire questa mancanza ci ha resi più veri, più attenti anche ai fratelli musulmani».
E' la storia di un affidamento estremo, è l'impegno di chi, anche nell'ora più buia, non si stanca di scorgere i segni della presenza di Dio. «Essere lì da cristiani, in questa pentola bollente, la Siria e tutto il Medio Oriente, è molto importante per dare il sale, il sapore a ciò che bolle in questa pentola - ha ricordato il religioso - Molti sognano di scappare: è normale, hanno paura. Ma molti tra noi cristiani sono convinti che il Signore già ai tempi di san Paolo abbia piantato l’albero della vita nel Medio Oriente. Noi non vogliamo portare via questo albero». Così i francescani resteranno ad Aleppo: «Amiamo di più, perdoniamo di più, ma non ce ne andiamo».