La sintesi più efficace l’ha data il presidente della Corte dei conti Raffaele Squitieri, davanti al presidente della Repubblica: «il rischio è l’assuefazione al malaffare». Parlava dell’Italia tutta e della corruzione, ma se avesse parlato di calcio non avrebbe potuto essere più calzante.
Anzi se parliamo di calcio possiamo tranquillamente dire che l’assuefazione è già una certezza. E infatti non desta più, non si dice scandalo, ma neppure quasi dibattito l’avviso di chiusura indagini sul calcioscommesse della procura di Cremona, che lambisce tra gli altri – 130 i nomi investiti d’accuse varie, alcune molto gravi come l’associazione a delinquere - il Ct Antonio Conte, a rischio di un rinvio a giudizio per frode sportiva, per fatti relativi al tempo in cui allenava il Siena, per cui ha già scontato una squalifica in sede sportiva.
La stessa cosa, breve dibattito e fulmineo scandalo subito dimenticato, è accaduta per Carlo Tavecchio, Presidente federale, punito dalla Fifa, dopo l’Uefa, per frasi razziste: anche lui in buona sintonia con il resto dai piani alti del Paese con la sola differenza che il presidente della Federcalcio non può, come invece il parlamentare di turno, nascondersi dietro il paravento dell’opinione espressa nell’esercizio delle funzioni. Per non dire dei 107mila euro spesi dalla Federazione per comprare 20.000 copie del libro del suo presidente: nella migliore delle ipotesi un figurone e soldi spesi a fini di dubbia utilità.
Ma il problema vero è ai piani bassi di cui gli alti sono espressione: l’assuefazione, si diceva. La storia insegna che il primo caso di combine è noto in campionato italiano fin dal 1927, da allora scommesse e scandali assortiti hanno travolto ciclicamente il pallone nostrano senza che chi lo amava davvero, come solo i tifosi che ci spendono denari e passione sanno fare, se ne indignasse il necessario per invitare – con decisione - il calcio a ripulirsi da dentro pena il rischio di giocare senza pubblico.
Il calcio è specchio del Paese, come il Paese difetta di anticorpi efficaci contro il malaffare che lo abita: Raffaele Cantone, autore qualche anno fa del saggio intitolato Football clan sul rapporto tra calcio e criminalità organizzata (notizie fresche a proposito sono arrivate dalle indagini di Roma e di Reggio Emilia), notava a proposito dell’accoglienza ricevuta dai tifosi alle prime presentazioni del libro: «Reagiscono come chi metta in dubbio la fedeltà della loro fidanzata».
Con la differenza che magari alla fidanzata non perdonano il tradimento, alla squadra e ai beniamini del pallone invece sì. Troppi son pronti a dimenticare ogni cosa: dai sentimenti calpestati, ai soldi veri spesi in cambio di spettacoli finti, e pure a insultare chi ricorda loro, carte alla mano, che son finiti tante volte becchi e bastonati.
Accadrà di nuovo. I processi faranno il loro corso, accerteranno le eventuali responsabilità, ammesso che la prescrizione non cali come una mannaia, ma, per restare in tema, potremmo scommettere che neanche stavolta vedremo nutrite schiere di tifosi organizzarsi in class action per costituirsi parte civile, in quanto danneggiati dai reati contestati. E neppure li sentiremo, cosa meno impegnativa e costosa, alzare la voce per chiedere un calcio diverso. I più, la storia anche recente lo insegna, preferiscono non vedere. Dimenticare. Continuare a tifare come se nulla fosse accaduto.