Il film più recente del regista inglese Mike Leigh,
Another year, presentato con successo al Festival
di Cannes nel 2010, si apre con una scena che si
svolge in un ambulatorio medico. Gerri, la protagonista,
è una psicologa in una struttura pubblica. Le
si presenta una paziente che ha la depressione e l’infelicità
scritte in faccia. Soffre d’insonnia e chiede
un farmaco per dormire. La psicologa si dice disposta
a prescriverglielo, ma allo stesso tempo le propone
di fare dei colloqui. Fanno parte del trattamento
e sono coperti dal servizio sanitario. La paziente è riluttante
e solo con grande difficoltà la psicologa riesce
a convincerla a presentarsi all’appuntamento.
L’incontro ha luogo, ma si conclude con un fallimento:
la signora non è disposta a sciogliere nessuno
dei nodi con cui è stretta all’angustia familiare e
personale che la psicologa – e noi spettatori con lei
– indovina dietro le occhiaie dell’insonnia: la paziente
si dice convinta che, se riuscirà ad avere un
sonno regolare per un mese, tutto sarà sistemato. Insiste
quindi nella richiesta delle pillole. Alla psicologa
non resta che una ritirata con discrezione.
Qual è la malattia? E quale il rimedio? La paziente
e la professionista sanitaria hanno due concezioni
diverse della patologia e della cura adeguata; immaginano
due diversi percorsi verso la guarigione.
Per la signora che ricorre all’aiuto professionale della
psicologa il problema si chiama insonnia; quando
non avrà più questo sintomo fastidioso, si considererà
guarita. La professionista – in questo caso la psicologa
– ha una diversa rappresentazione della malattia:
per lei il male parla attraverso il sintomo, ma
non si identifica con il sintomo stesso.
Va scoperto e stanato dalla profondità
dove si nasconde, affinché la persona
possa camminare verso la guarigione.
Dissente dalle categorie di patologico/
terapeutico che il paziente si è
costruito, perché vuol portarlo a un
modello più alto di salute. Possiamo
chiamare questo stato, prendendo in
prestito l’espressione da Friedrich
Nietzsche, la “Grande Salute”, ovvero
uno stato nel quale prende una forma
più completa di autorealizzazione
dell’essere umano.
Un racconto di Cechov, intitolato
per l’appunto “Un caso di pratica medica”
(del 1898) ci
aiuta a dare concretezza
alla divaricazione
tra le due impostazioni.
Anche in questo
caso malata è una
donna e il suo malessere
s i esprime
nell’insonnia, oltre
che in un diffuso disinteresse
per la vita.
È la figlia di un ricco
proprietario di una
fabbrica, nella quale lavorano in condizioni
disumane molti operai. Il dottor
Korolëv è chiamato da Mosca a visitare
la malata. Oltre alla visita medica,
tra il medico e la giovane donna ha
luogo, di notte, un colloquio profondo
che travalica l’ambito proprio della
medicina. La giovane ammette:
«Voglio dirvi cosa penso. Credo di
non essere malata; ma mi tormento, e
ho paura, perché deve essere così e
non può essere altrimenti». Al medico
chiede se ha ragione o torto. E il
dott. Korolëv sposta il piano dell’analisi:
«Siete scontenta della vostra situazione
di proprietaria di una fabbrica
e di ricca ereditiera, non credete ai vostri
diritti e non dormite. Questo è sicuramente
meglio che se voi foste soddisfatta,
e dormiste pensando che tutto
va bene. La vostra insonnia è rispettabile,
e checcé ne sia, è un buon segno
». Trasferendo al dottor Korolëv
le sue aspirazioni umanitarie e sociali,
Cechov lascia intendere che una vera
guarigione non può avvenire senza
un riaggiustamento di rapporti sociali
oppressivi, senza il trionfo di una giustizia
sociale, che lo scrittore iscrive
nell’agenda del secolo nuovo, che sta
per cominciare. Far tacere il sintomo
con un sonnifero non sarebbe un
buon servizio reso dalla medicina. Sarebbe
una “guarigione” parziale, ma
senza salute; quanto meno se ci riferiamo
alla salute in senso più ampio e inclusivo.
La guarigione dell’individuo
non si realizza senza
un parallelo risanamento
della società.
Le Medical Humanities
possono raccogliere
e rilanciare le questioni
fondamentali
che la medicina tende
a ignorare: che cos’è
la salute? Qual è la
strada verso la guarigione?
Quale ruolo
gioca la consapevolezza,
sia del terapeuta sia del soggetto
malato, in questo percorso?
La richiesta di un farmaco sintetizza
in modo efficace la domanda che,
per lo più, viene rivolta ai professionisti
della cura. E, da un punto di vista
sociale, la capacità di una società di rispondere
a tale richiesta garantendo
a tutti i cittadini che ne hanno bisogno
i farmaci necessari, indipendentemente
dalle loro capacità economiche,
è considerato un criterio di buona
organizzazione sanitaria. Il trattamento
richiesto è inserito in un modello
di aspettative che, nei termini
trasmessi dalla classicità, viene formulato
come restituito ad integrum. In termini
colloquiali, il malato chiede almedico di “tornare come prima”. La
malattia viene considerata come antitetica
alla salute: quando c’è l’una,
non c’è l’altra. L’irrompere della patologia
sconvolge l’equilibrio sano
che la precedeva. Dall’intervento medico
ci si aspetta che riporti la condizione
precedente. Diverso è il modello
implicito in chi propone al malato
di indagare il significato del sintomo
e si propone di aiutare il paziente ad
accedere a uno stato di salute superiore:
non, dunque, tornare alla condizione
precedente, identificata con lo
stato di salute, ma procedere verso
una condizione nuova, caratterizzata
anzitutto da una maggiore consapevolezza
e quindi, in senso antropologico,
da una più grande salute. Ebbene,
questi due approcci possono entrare
in conflitto, o in dissonanza.
Per lo più i pazienti vanno dal medico
per essere guariti, non per essere
condotti verso una più alta concezione
della salute. Ogni programma di
educazione terapeutica rivolto al paziente
deve tener conto di questa fondamentale
asimmetria di attese, dalla
quale possono scaturire dolorosi malintesi.
Eppure niente è più tradizionale
in medicina dell’intento educativo,
parallelo a quello terapeutico. Ne
possiamo rintracciare le radici nella
stessa medicina greca, che contiene
in sé il codice genetico di tutta la medicina
occidentale. È vero che Platone
ne La Repubblica non risparmia
frecciate ironiche contro la medicina
che insegna ai pazienti a “prolungare
la loro morte”. Propone come esemplare
il comportamento degli artigiani,
che conoscono solo la medicina
curativa, non quella che permetterebbe
loro di prolungare la vita nello stato
di patologia cronica: «Un falegname,
quando si ammala, chiede al medico
di dargli una pozione che gli permetta
di vomitare o di evacuare la malattia,
oppure lo prega di guarirlo cauterizzando
o incidendo. Se però gli
viene prescritta una lunga cura, se deve
avvolgersi il capo con berretti di lana
o cose del genere, dice subito che
non ha tempo di essere malato, e vivere
ascoltando la sua malattia e trascurando
il lavoro che lo attende non gli
serve nemmeno. Poi egli congeda un
medico simile, ritorna al regime consueto,
recupera la salute e vive del suo
mestiere; se invece non sarà abbastanza
forte per sopravvivere, si libererà
dai suoi malanni con la morte» (La Repubblica,
III, XV).
La medicina applicata alla cura delle
malattie che non guariscono è per
Platone una deviazione dall’arte medica
originale: «Asclepio aveva celato
questo aspetto della medicina non
per ignoranza o per inesperienza, ma
perché sapeva che in uno Stato con
buone leggi ogni cittadino ha il suo
compito e deve eseguirlo, e non ha
tempo di passare la vita a farsi curare
le sue malattie» (ibid.). Dietro la posizione
di apparente predilezione per
una selezione naturale di tipo
darwiniano, possiamo leggere un alto
apprezzamento per la natura (physis)
e la sua saggezza, congiuntamente a
una messa in guardia rispetto alla deformazione
antropologica e allo squilibrio
sociale che si creano quando la
salute da mezzo diventa fine.
Malgrado le riserve formulate da
Platone, la medicina antica ha sviluppato
un carattere profondamente pedagogico.
Lo documentano i testi dietetici
e igienici che compaiono fin dagli
esordi del pensiero medico e che
sono parte cospicua del Corpus hippocraticum.
Il motivo va rintracciato nella
teorizzazione antropologica che
ipotizzava uno stato “neutro”, intermedio
tra la salute e la malattia. Coloro
che, né sani né malati, si trovano in
questo stato intermedio, sono anche
essi soggetti alle cure mediche, almeno
sotto l’aspetto della diaita (la dietetica
greca regolamentava sei ambiti:
aria e luce, mangiare e bere, movimento
e riposo, sonno e veglia, secrezioni
e affetti). Secoli più tardi, all’alba
delle trasformazioni culturali che
condurranno alla medicina dei nostri
giorni, Jules Romains nella commedia
Il dott. Knock o il trionfo della medicina,
rappresentata per la prima volta
nel 1926, mette in bocca al protagonista
una dura requisitoria contro la
“neutralità”. Perché si possa celebrare
“il trionfo della medicina” – sostiene
il dott. Knock, partigiano della teoria
che «ogni sano è un malato che si
ignora» – è necessario condurre la popolazione
ignara all’“esistenza medica”.
Al medico suo predecessore nella
condotta rurale spiega la propria strategia
di “promozione della salute”:
«Voi mi date un cantone popolato da
qualche migliaio di individui neutri,
indeterminati. Il mio ruolo è quello
di determinarli, di condurli all’esistenza
medica. Io li metto a letto e guardo
ciò che ne potrà venir fuori: un tubercolotico,
un neuropatico, un arteriosclerotico,
ciò che si vorrà, ma qualcuno,
buon Dio! Qualcuno! Niente mi irrita
come quell’essere né carne né pesce
che voi chiamate essere sano».
È sempre più difficile allontanare il
sospetto che dietro i programmi di
educazione alla salute, come quelli
che nell’immaginario Paese di St.
Maurice lancia, con la collaborazione
del maestro, l’intraprendente dott.
Knock, ci sia un’abile strategia di “medicalizzazione”
della vita. Per quanto
l’educazione si presenti come orientata
“al bene del paziente”, si sviluppa
sotto il segno del potere medico: un
potere nei confronti del quale ai nostri
giorni sta crescendo la diffidenza.
Poche sono le esperienze storiche
di educazione alla salute nate con un
esplicito intento di costituire un contropotere
medico. Tra di esse andrebbe
almeno segnalato il movimento
americano noto come Popular Health
Movement, sviluppatosi negli anni ’30
e ’40 del XIX secolo, in vivace contrasto
con la medicina accademica. Il
movimento non era che il fronte medico
di un’agitazione sociale più vasta,
fomentata dai movimenti operaio
e femminista. L’attacco all’élite medica
era accompagnato da una vigorosa
affermazione della tradizionale medicina
del popolo. Every man is own
doctor: era il motto di un’ala estremista
del Popular Health Movement. Per
certe sue iniziative il movimento per
la salute confluiva negli obiettivi del
movimento femminista, come le Ladies
Physiological Societies, che impartivano
semplici istruzioni di anatomia e
igiene personale, sotto la spinta a
“riappropriarsi del corpo”. Il movimento
non rivendicava una maggiore
quantità di cure mediche, ma prospettava
piuttosto una cura della salute di
tipo radicalmente differente. Era una
sfida alla medicina ufficiale, sia al modo
in cui veniva praticata, sia alle basi
concettuali del suo edificio.
Per quanto intenda differenziarsi
dall’approccio medico, anche questo
modello di educazione alla salute ne
conservava, tuttavia, un tratto caratteristico:
l’atteggiamento paternalistico.
Un’asimmetria radicale nel rapporto
tra educatore ed educando contraddistingue
la letteratura fondata
sull’igiene individuale diffusa nel
XIX secolo. Sia la letteratura di matrice
religiosa sia quella laica sono
espressioni di una borghesia che si
prende cura del proletariato, con intenti
di tutela. Si possono individuare
due filoni sinergici: quello che parte
dall’ordine sociale e religioso costituito
per incitare a condurre una vita sana
e moralmente integra e quello più
sensibile ai movimenti tendenti al progresso
sociale e politico. L’impegno
scientifico-sociale si tramuta con naturalezza
in un impegno scientifico-pedagogico;
l’educazione rimane tuttavia un’attività che scende dall’alto di
un sapere specialistico e di un atteggiamento
filantropico. Il paternalismo
che caratterizza l’educazione sanitaria
è duro a morire. Da una parte
non possiamo che criticare quei professionisti
che prendono la scorciatoia
della medicalizzazione a oltranza
di ogni forma di malessere, preferendo
fornire un farmaco piuttosto che il
farmaco fondamentale, che è la persona
stessa del terapeuta. È molto più
“economico” scrivere una ricetta che
dia accesso a una medicina, piuttosto
che dedicarsi all’ascolto e instaurare
una relazione continuativa nel tempo.
Riaffermato questo punto, dobbiamo
però aggiungere subito che questo
percorso verso la “Grande Salute”
non può essere condotto nei termini
del passato. Il rapporto di potere tra i
professionisti sanitari e malati deve
modificarsi nel senso di maggior empowerment
dei secondi. È in atto una
crescita culturale che tende a un rapporto
adulto con i professionisti. Questi
dovranno imparare a esercitare un
ascolto dei valori e delle preferenze
delle persone che non ci è stato trasmesso
dalla medicina del passato. E a
rispettare le scelte personali, anche
quando non sono quelle che il medico
farebbe per sé stesso.
Contrariamente alla tenace aspettativa
di un cammino verso la salute costellato
di interventi risolutivi, la crescita
nella dimensione della salute
che caratterizza la persona richiede
un impegno della persona stessa. Ancor
più esigente è l’accesso alla dimensione
transpersonale, che indica
l’adozione di quell’atteggiamento
fondamentale verso la vita che è proprio
della tradizione religiosa e sapienziale.
La vita trascende l’aspetto
di una proprietà che si deve gestire responsabilmente:
si presenta piuttosto
come un dono, a cui si partecipa mediante
la modalità della comunione.
La porta d’ingresso nella dimensione
transpersonale è costituita dalla categoria
del pathos, che ci porta a trascendere
il territorio ora presidiato
dalla bioetica. Lo stato di coscienza
transpersonale ci indica un atteggiamento
verso la vita che non sia modulato
esclusivamente sulle categorie
dell’azione (anche se si tratta di
un’azione che accetta di lasciarsi confrontare
con i limiti posti dall’etica).
La bioetica si trova molto impegnata a
mettere dei confini al desiderio: di generare
figli con certe caratteristiche e
a certe condizioni, di prolungare la vita
o di abbreviarla, di modificare il patrimonio
genetico ecc. In breve, la
bioetica è confrontata con le mille trasformazioni
dell’eros, cioè del desiderio
e del potere dell’uomo sulla vita.
Nelle sue infinite espressioni, l’eros
ci presenta la vita come un campo di
intervento illimitato, grazie all’aumento
di possibilità dovuto al progresso
scientifico e tecnologico. L’ebbrezza
di interventismo attivo sulla vita, tipica
della cultura occidentale, è centrata
sulle possibilità di tutto conoscere e
tutto cambiare. Ma anche il pathos,
cioè la modalità di esistenza che dipende
non da ciò che facciamo ma da ciò
che subiamo, è una dimensione costitutiva
della vita. La determinazione volontaria
è entrata pesantemente anche
in fatti esistenziali che prima venivano
fatti dipendere dal caso o dalla
provvidenza: come il numero e la temporalità
delle nascite, e il momento di
arrendersi alla morte. Tutto ciò ora
tende a dipendere dall’azione dell’uomo.
Questo sbilanciamento unilaterale
verso l’azione produce una deformazione
antropologica: l’uomo che
aumenta il potere arbitrario su sé stesso
non diventa ancor più uomo, ma
una caricatura. Abbiamo bisogno di integrare
la modalità “patica” dell’esistenza
nel repertorio dei comportamenti
che costituiscono l’umano autentico.
La “passione”, infatti, e non solo
l’azione, costituisce una possibilità
di crescita. Anzi, la pazienza – virtù
correlata ai comportamenti che dipendono
dal pathos – ci può far arrivare là
dove l’azione non ci può portare. “Passività
di crescita” ha chiamato Teilhard
de Chardin questi eventi dell’esistenza
che richiedono la pazienza come
risposta comportamentale. La passività
costituisce, rispetto all’azione,
l’altro braccio con cui Dio ci attira a
sé; la pazienza è virtù che si appropria
di queste possibilità di crescita.
La bioetica non ha il compito di
porre limiti e scadenze al desiderio. Il
suo obiettivo, espresso positivamente,
è quello di far emergere l’interpellazione
presente in ciò che la vita ci fa
subire. Deve educare il desiderio a riconoscere
la voce del pathos, ad aprirsi
a questo “Tu” che ci viene incontro
nella durezza di ciò su cui non abbiamo
potere. Anche questo atteggiamento
recettivo verso la vita – qualificabile
come spirituale – ha bisogno di
essere incluso nella saggezza richiesta
dai tempi nuovi che stiamo vivendo.
Finora ci siamo occupati di contrastare
le inclinazioni faustiane del progresso
biomedico, mediante accurate
valutazioni del lecito e dell’illecito
nell’ambito della genetica, della biologia
e della nuova pratica della medicina.
Per essere completa, la sapienza
esistenziale ha bisogno di integrare
anche quanto la vita, come festoso-tragico
gioco dell’Essere, veicola attraverso
il pathos, riconoscendo il limite
e inducendoci al loro trascendimento.
Ed è compito di chi promuove
quello stato di coscienza che nasce
dall’esperienza della vita come dono
a cui si partecipa, quale è concettualizzato
all’interno del movimento transpersonale,
stimolare le persone, sane
e malate, a confrontarsi anche con
quest’ultimo orizzonte.