Contribuisci a mantenere questo sito gratuito

Riusciamo a fornire informazione gratuita grazie alla pubblicità erogata dai nostri partner.
Accettando i consensi richiesti permetti ad i nostri partner di creare un'esperienza personalizzata ed offrirti un miglior servizio.
Avrai comunque la possibilità di revocare il consenso in qualunque momento.

Selezionando 'Accetta tutto', vedrai più spesso annunci su argomenti che ti interessano.
Selezionando 'Accetta solo cookie necessari', vedrai annunci generici non necessariamente attinenti ai tuoi interessi.

logo san paolo
sabato 07 settembre 2024
 
 

Il cammino verso la guarigione: modi e gradi

25/10/2011  Tornare come prima o accedere a uno stato di salute più grande. Sembra ruotare attorno a questo polo la ricerca della cura e la sua soddisfazione, nell’epoca odierna.

Il film più recente del regista inglese Mike Leigh, Another year, presentato con successo al Festival di Cannes nel 2010, si apre con una scena che si svolge in un ambulatorio medico. Gerri, la protagonista, è una psicologa in una struttura pubblica. Le si presenta una paziente che ha la depressione e l’infelicità scritte in faccia. Soffre d’insonnia e chiede un farmaco per dormire. La psicologa si dice disposta a prescriverglielo, ma allo stesso tempo le propone di fare dei colloqui. Fanno parte del trattamento e sono coperti dal servizio sanitario. La paziente è riluttante e solo con grande difficoltà la psicologa riesce a convincerla a presentarsi all’appuntamento. L’incontro ha luogo, ma si conclude con un fallimento: la signora non è disposta a sciogliere nessuno dei nodi con cui è stretta all’angustia familiare e personale che la psicologa – e noi spettatori con lei – indovina dietro le occhiaie dell’insonnia: la paziente si dice convinta che, se riuscirà ad avere un sonno regolare per un mese, tutto sarà sistemato. Insiste quindi nella richiesta delle pillole. Alla psicologa non resta che una ritirata con discrezione.

Qual è la malattia? E quale il rimedio? La paziente e la professionista sanitaria hanno due concezioni diverse della patologia e della cura adeguata; immaginano due diversi percorsi verso la guarigione. Per la signora che ricorre all’aiuto professionale della psicologa il problema si chiama insonnia; quando non avrà più questo sintomo fastidioso, si considererà guarita. La professionista – in questo caso la psicologa – ha una diversa rappresentazione della malattia: per lei il male parla attraverso il sintomo, ma non si identifica con il sintomo stesso. Va scoperto e stanato dalla profondità dove si nasconde, affinché la persona possa camminare verso la guarigione. Dissente dalle categorie di patologico/ terapeutico che il paziente si è costruito, perché vuol portarlo a un modello più alto di salute. Possiamo chiamare questo stato, prendendo in prestito l’espressione da Friedrich Nietzsche, la “Grande Salute”, ovvero uno stato nel quale prende una forma più completa di autorealizzazione dell’essere umano.

Un racconto di Cechov, intitolato per l’appunto “Un caso di pratica medica” (del 1898) ci aiuta a dare concretezza alla divaricazione tra le due impostazioni. Anche in questo caso malata è una donna e il suo malessere s i esprime nell’insonnia, oltre che in un diffuso disinteresse per la vita. È la figlia di un ricco proprietario di una fabbrica, nella quale lavorano in condizioni disumane molti operai. Il dottor Korolëv è chiamato da Mosca a visitare la malata. Oltre alla visita medica, tra il medico e la giovane donna ha luogo, di notte, un colloquio profondo che travalica l’ambito proprio della medicina. La giovane ammette: «Voglio dirvi cosa penso. Credo di non essere malata; ma mi tormento, e ho paura, perché deve essere così e non può essere altrimenti». Al medico chiede se ha ragione o torto. E il dott. Korolëv sposta il piano dell’analisi: «Siete scontenta della vostra situazione di proprietaria di una fabbrica e di ricca ereditiera, non credete ai vostri diritti e non dormite. Questo è sicuramente meglio che se voi foste soddisfatta, e dormiste pensando che tutto va bene. La vostra insonnia è rispettabile, e checcé ne sia, è un buon segno ». Trasferendo al dottor Korolëv le sue aspirazioni umanitarie e sociali, Cechov lascia intendere che una vera guarigione non può avvenire senza un riaggiustamento di rapporti sociali oppressivi, senza il trionfo di una giustizia sociale, che lo scrittore iscrive nell’agenda del secolo nuovo, che sta per cominciare. Far tacere il sintomo con un sonnifero non sarebbe un buon servizio reso dalla medicina. Sarebbe una “guarigione” parziale, ma senza salute; quanto meno se ci riferiamo alla salute in senso più ampio e inclusivo. La guarigione dell’individuo non si realizza senza un parallelo risanamento della società. Le Medical Humanities possono raccogliere e rilanciare le questioni fondamentali che la medicina tende a ignorare: che cos’è la salute? Qual è la strada verso la guarigione? Quale ruolo gioca la consapevolezza, sia del terapeuta sia del soggetto malato, in questo percorso?

La richiesta di un farmaco sintetizza in modo efficace la domanda che, per lo più, viene rivolta ai professionisti della cura. E, da un punto di vista sociale, la capacità di una società di rispondere a tale richiesta garantendo a tutti i cittadini che ne hanno bisogno i farmaci necessari, indipendentemente dalle loro capacità economiche, è considerato un criterio di buona organizzazione sanitaria. Il trattamento richiesto è inserito in un modello di aspettative che, nei termini trasmessi dalla classicità, viene formulato come restituito ad integrum. In termini colloquiali, il malato chiede almedico di “tornare come prima”. La malattia viene considerata come antitetica alla salute: quando c’è l’una, non c’è l’altra. L’irrompere della patologia sconvolge l’equilibrio sano che la precedeva. Dall’intervento medico ci si aspetta che riporti la condizione precedente. Diverso è il modello implicito in chi propone al malato di indagare il significato del sintomo e si propone di aiutare il paziente ad accedere a uno stato di salute superiore: non, dunque, tornare alla condizione precedente, identificata con lo stato di salute, ma procedere verso una condizione nuova, caratterizzata anzitutto da una maggiore consapevolezza e quindi, in senso antropologico, da una più grande salute. Ebbene, questi due approcci possono entrare in conflitto, o in dissonanza.

Per lo più i pazienti vanno dal medico per essere guariti, non per essere condotti verso una più alta concezione della salute. Ogni programma di educazione terapeutica rivolto al paziente deve tener conto di questa fondamentale asimmetria di attese, dalla quale possono scaturire dolorosi malintesi. Eppure niente è più tradizionale in medicina dell’intento educativo, parallelo a quello terapeutico. Ne possiamo rintracciare le radici nella stessa medicina greca, che contiene in sé il codice genetico di tutta la medicina occidentale. È vero che Platone ne La Repubblica non risparmia frecciate ironiche contro la medicina che insegna ai pazienti a “prolungare la loro morte”. Propone come esemplare il comportamento degli artigiani, che conoscono solo la medicina curativa, non quella che permetterebbe loro di prolungare la vita nello stato di patologia cronica: «Un falegname, quando si ammala, chiede al medico di dargli una pozione che gli permetta di vomitare o di evacuare la malattia, oppure lo prega di guarirlo cauterizzando o incidendo. Se però gli viene prescritta una lunga cura, se deve avvolgersi il capo con berretti di lana o cose del genere, dice subito che non ha tempo di essere malato, e vivere ascoltando la sua malattia e trascurando il lavoro che lo attende non gli serve nemmeno. Poi egli congeda un medico simile, ritorna al regime consueto, recupera la salute e vive del suo mestiere; se invece non sarà abbastanza forte per sopravvivere, si libererà dai suoi malanni con la morte» (La Repubblica, III, XV).

La medicina applicata alla cura delle malattie che non guariscono è per Platone una deviazione dall’arte medica originale: «Asclepio aveva celato questo aspetto della medicina non per ignoranza o per inesperienza, ma perché sapeva che in uno Stato con buone leggi ogni cittadino ha il suo compito e deve eseguirlo, e non ha tempo di passare la vita a farsi curare le sue malattie» (ibid.). Dietro la posizione di apparente predilezione per una selezione naturale di tipo darwiniano, possiamo leggere un alto apprezzamento per la natura (physis) e la sua saggezza, congiuntamente a una messa in guardia rispetto alla deformazione antropologica e allo squilibrio sociale che si creano quando la salute da mezzo diventa fine.

Malgrado le riserve formulate da Platone, la medicina antica ha sviluppato un carattere profondamente pedagogico. Lo documentano i testi dietetici e igienici che compaiono fin dagli esordi del pensiero medico e che sono parte cospicua del Corpus hippocraticum. Il motivo va rintracciato nella teorizzazione antropologica che ipotizzava uno stato “neutro”, intermedio tra la salute e la malattia. Coloro che, né sani né malati, si trovano in questo stato intermedio, sono anche essi soggetti alle cure mediche, almeno sotto l’aspetto della diaita (la dietetica greca regolamentava sei ambiti: aria e luce, mangiare e bere, movimento e riposo, sonno e veglia, secrezioni e affetti). Secoli più tardi, all’alba delle trasformazioni culturali che condurranno alla medicina dei nostri giorni, Jules Romains nella commedia Il dott. Knock o il trionfo della medicina, rappresentata per la prima volta nel 1926, mette in bocca al protagonista una dura requisitoria contro la “neutralità”. Perché si possa celebrare “il trionfo della medicina” – sostiene il dott. Knock, partigiano della teoria che «ogni sano è un malato che si ignora» – è necessario condurre la popolazione ignara all’“esistenza medica”. Al medico suo predecessore nella condotta rurale spiega la propria strategia di “promozione della salute”: «Voi mi date un cantone popolato da qualche migliaio di individui neutri, indeterminati. Il mio ruolo è quello di determinarli, di condurli all’esistenza medica. Io li metto a letto e guardo ciò che ne potrà venir fuori: un tubercolotico, un neuropatico, un arteriosclerotico, ciò che si vorrà, ma qualcuno, buon Dio! Qualcuno! Niente mi irrita come quell’essere né carne né pesce che voi chiamate essere sano».

È sempre più difficile allontanare il sospetto che dietro i programmi di educazione alla salute, come quelli che nell’immaginario Paese di St. Maurice lancia, con la collaborazione del maestro, l’intraprendente dott. Knock, ci sia un’abile strategia di “medicalizzazione” della vita. Per quanto l’educazione si presenti come orientata “al bene del paziente”, si sviluppa sotto il segno del potere medico: un potere nei confronti del quale ai nostri giorni sta crescendo la diffidenza. Poche sono le esperienze storiche di educazione alla salute nate con un esplicito intento di costituire un contropotere medico. Tra di esse andrebbe almeno segnalato il movimento americano noto come Popular Health Movement, sviluppatosi negli anni ’30 e ’40 del XIX secolo, in vivace contrasto con la medicina accademica. Il movimento non era che il fronte medico di un’agitazione sociale più vasta, fomentata dai movimenti operaio e femminista. L’attacco all’élite medica era accompagnato da una vigorosa affermazione della tradizionale medicina del popolo. Every man is own doctor: era il motto di un’ala estremista del Popular Health Movement. Per certe sue iniziative il movimento per la salute confluiva negli obiettivi del movimento femminista, come le Ladies Physiological Societies, che impartivano semplici istruzioni di anatomia e igiene personale, sotto la spinta a “riappropriarsi del corpo”. Il movimento non rivendicava una maggiore quantità di cure mediche, ma prospettava piuttosto una cura della salute di tipo radicalmente differente. Era una sfida alla medicina ufficiale, sia al modo in cui veniva praticata, sia alle basi concettuali del suo edificio.

Per quanto intenda differenziarsi dall’approccio medico, anche questo modello di educazione alla salute ne conservava, tuttavia, un tratto caratteristico: l’atteggiamento paternalistico. Un’asimmetria radicale nel rapporto tra educatore ed educando contraddistingue la letteratura fondata sull’igiene individuale diffusa nel XIX secolo. Sia la letteratura di matrice religiosa sia quella laica sono espressioni di una borghesia che si prende cura del proletariato, con intenti di tutela. Si possono individuare due filoni sinergici: quello che parte dall’ordine sociale e religioso costituito per incitare a condurre una vita sana e moralmente integra e quello più sensibile ai movimenti tendenti al progresso sociale e politico. L’impegno scientifico-sociale si tramuta con naturalezza in un impegno scientifico-pedagogico; l’educazione rimane tuttavia un’attività che scende dall’alto di un sapere specialistico e di un atteggiamento filantropico. Il paternalismo che caratterizza l’educazione sanitaria è duro a morire. Da una parte non possiamo che criticare quei professionisti che prendono la scorciatoia della medicalizzazione a oltranza di ogni forma di malessere, preferendo fornire un farmaco piuttosto che il farmaco fondamentale, che è la persona stessa del terapeuta. È molto più “economico” scrivere una ricetta che dia accesso a una medicina, piuttosto che dedicarsi all’ascolto e instaurare una relazione continuativa nel tempo. Riaffermato questo punto, dobbiamo però aggiungere subito che questo percorso verso la “Grande Salute” non può essere condotto nei termini del passato. Il rapporto di potere tra i professionisti sanitari e malati deve modificarsi nel senso di maggior empowerment dei secondi. È in atto una crescita culturale che tende a un rapporto adulto con i professionisti. Questi dovranno imparare a esercitare un ascolto dei valori e delle preferenze delle persone che non ci è stato trasmesso dalla medicina del passato. E a rispettare le scelte personali, anche quando non sono quelle che il medico farebbe per sé stesso.

Contrariamente alla tenace aspettativa di un cammino verso la salute costellato di interventi risolutivi, la crescita nella dimensione della salute che caratterizza la persona richiede un impegno della persona stessa. Ancor più esigente è l’accesso alla dimensione transpersonale, che indica l’adozione di quell’atteggiamento fondamentale verso la vita che è proprio della tradizione religiosa e sapienziale. La vita trascende l’aspetto di una proprietà che si deve gestire responsabilmente: si presenta piuttosto come un dono, a cui si partecipa mediante la modalità della comunione. La porta d’ingresso nella dimensione transpersonale è costituita dalla categoria del pathos, che ci porta a trascendere il territorio ora presidiato dalla bioetica. Lo stato di coscienza transpersonale ci indica un atteggiamento verso la vita che non sia modulato esclusivamente sulle categorie dell’azione (anche se si tratta di un’azione che accetta di lasciarsi confrontare con i limiti posti dall’etica). La bioetica si trova molto impegnata a mettere dei confini al desiderio: di generare figli con certe caratteristiche e a certe condizioni, di prolungare la vita o di abbreviarla, di modificare il patrimonio genetico ecc. In breve, la bioetica è confrontata con le mille trasformazioni dell’eros, cioè del desiderio e del potere dell’uomo sulla vita.

Nelle sue infinite espressioni, l’eros ci presenta la vita come un campo di intervento illimitato, grazie all’aumento di possibilità dovuto al progresso scientifico e tecnologico. L’ebbrezza di interventismo attivo sulla vita, tipica della cultura occidentale, è centrata sulle possibilità di tutto conoscere e tutto cambiare. Ma anche il pathos, cioè la modalità di esistenza che dipende non da ciò che facciamo ma da ciò che subiamo, è una dimensione costitutiva della vita. La determinazione volontaria è entrata pesantemente anche in fatti esistenziali che prima venivano fatti dipendere dal caso o dalla provvidenza: come il numero e la temporalità delle nascite, e il momento di arrendersi alla morte. Tutto ciò ora tende a dipendere dall’azione dell’uomo. Questo sbilanciamento unilaterale verso l’azione produce una deformazione antropologica: l’uomo che aumenta il potere arbitrario su sé stesso non diventa ancor più uomo, ma una caricatura. Abbiamo bisogno di integrare la modalità “patica” dell’esistenza nel repertorio dei comportamenti che costituiscono l’umano autentico. La “passione”, infatti, e non solo l’azione, costituisce una possibilità di crescita. Anzi, la pazienza – virtù correlata ai comportamenti che dipendono dal pathos – ci può far arrivare là dove l’azione non ci può portare. “Passività di crescita” ha chiamato Teilhard de Chardin questi eventi dell’esistenza che richiedono la pazienza come risposta comportamentale. La passività costituisce, rispetto all’azione, l’altro braccio con cui Dio ci attira a sé; la pazienza è virtù che si appropria di queste possibilità di crescita.

La bioetica non ha il compito di porre limiti e scadenze al desiderio. Il suo obiettivo, espresso positivamente, è quello di far emergere l’interpellazione presente in ciò che la vita ci fa subire. Deve educare il desiderio a riconoscere la voce del pathos, ad aprirsi a questo “Tu” che ci viene incontro nella durezza di ciò su cui non abbiamo potere. Anche questo atteggiamento recettivo verso la vita – qualificabile come spirituale – ha bisogno di essere incluso nella saggezza richiesta dai tempi nuovi che stiamo vivendo. Finora ci siamo occupati di contrastare le inclinazioni faustiane del progresso biomedico, mediante accurate valutazioni del lecito e dell’illecito nell’ambito della genetica, della biologia e della nuova pratica della medicina. Per essere completa, la sapienza esistenziale ha bisogno di integrare anche quanto la vita, come festoso-tragico gioco dell’Essere, veicola attraverso il pathos, riconoscendo il limite e inducendoci al loro trascendimento. Ed è compito di chi promuove quello stato di coscienza che nasce dall’esperienza della vita come dono a cui si partecipa, quale è concettualizzato all’interno del movimento transpersonale, stimolare le persone, sane e malate, a confrontarsi anche con quest’ultimo orizzonte.

I vostri commenti
2

Stai visualizzando  dei 2 commenti

    Vedi altri 20 commenti
    Policy sulla pubblicazione dei commenti
    I commenti del sito di Famiglia Cristiana sono premoderati. E non saranno pubblicati qualora:

    • - contengano contenuti ingiuriosi, calunniosi, pornografici verso le persone di cui si parla
    • - siano discriminatori o incitino alla violenza in termini razziali, di genere, di religione, di disabilità
    • - contengano offese all’autore di un articolo o alla testata in generale
    • - la firma sia palesemente una appropriazione di identità altrui (personaggi famosi o di Chiesa)
    • - quando sia offensivo o irrispettoso di un altro lettore o di un suo commento

    Ogni commento lascia la responsabilità individuale in capo a chi lo ha esteso. L’editore si riserva il diritto di cancellare i messaggi che, anche in seguito a una prima pubblicazione, appaiano  - a suo insindacabile giudizio - inaccettabili per la linea editoriale del sito o lesivi della dignità delle persone.
     
     
    Pubblicità
    Edicola San Paolo