Il cardinale Beniamino Stella, veneto di Pieve
di Solingo, 75 anni, nominato nel 2013
da papa Francesco prefetto per la Congregazione
per il clero, dirige il dicastero che
da poco prima del suo arrivo, per volere
di papa Benedetto XVI, ha anche il compito di
seguire i seminari e la formazione sacerdotale
oltre che valutare i casi e le richieste di dispensa
da parte dei presbiteri che vogliono lasciare il sacerdozio.
Lo incontriamo nella splendida sede al
secondo piano di piazza Pio XII che si affaccia su
piazza San Pietro, dove il colonnato berniniano è
così vicino che sembra di toccarlo.
Eminenza, lei è stato ordinato prete negli
anni Sessanta, suo vescovo fu Albino
Luciani. Com’è cambiato da allora il
ministero sacerdotale?
«La visione del ministero è cambiata nel
senso che il ruolo del prete non è più associato
a un posto di privilegio nella società. Oggi abbiamo
un prete disceso in mezzo all’umanità,
meno sacrale, meno ritirato in sacrestia e meno
influente dal punto di vista politico. Questo è
un gran bene perché riporta l’esercizio del ministero
alle sorgenti del Vangelo e lo purifica da
alcuni elementi storici e contestuali che ne avevano
in qualche modo oscurato la bellezza. Il
momento è favorevole nonostante alcuni segni
di stanchezza e ciò esige da tutti, in particolare
dai preti, un rinnovato coraggio apostolico che
papa Francesco ha riacceso».
Quali sono i criteri che dovrebbero guidare
la formazione dei futuri preti?
«Su alcuni aspetti che riguardano il discernimento
e l’accompagnamento formativo dei seminaristi
abbiamo bisogno di fare molta luce: vi
sono infatti difficoltà che sono da situare in una
immaturità umana e affettiva, in problematiche
non affrontate con onestà o nella non cura della
propria spiritualità durante la formazione. In
questi casi viene a mancare una solida struttura
umana e spirituale senza la quale è impossibile
vivere il futuro ministero. Non tutti sono adatti
per i sentieri e le scalate di alta montagna. Pensando
alle esigenze radicali del ministero e alla
conseguente struttura necessaria per poterle
scalare, potremmo soffermarci sull’immagine
del rocciatore che soffre di vertigini: sarà meglio
che rimanga a casa e percorra sentieri adatti
alle sue caratteristiche. In tal senso sbagliano
i vescovi che impongono le mani a un giovane
senza averlo verificato attentamente, anche negli
angoli più remoti. Ordinare senza le dovute
garanzie espone il prete a vivere nell’infelicità e
ad aprire delle crepe nell’edificio Chiesa con il
rischio di crolli e scandali. Bisogna anche scongiurare
la mancanza di attenzione e vicinanza
nei confronti dei giovani preti, magari esposti
alla solitudine o a un eccesso di lavoro pastorale.
Il primo dovere del vescovo è quello di
custodire e curare i suoi preti, non c’è un ministero
o un’urgenza più importante. In generale,
i vescovi talvolta mancano in tale ambito per
omissione, è una cosa grave e perniciosa di cui
devono rendere conto alla Chiesa e alla propria
coscienza».
Quali sono gli strumenti messi in campo per
la formazione dei futuri presbiteri?
«La Congregazione per il clero sta per
pubblicare una Ratio, voluta proprio da papa
Francesco, con le nuove linee guida per la formazione
dei preti che fino ad oggi erano ferme
all’ultima regolamentazione degli anni Settanta.
Le novità riguardano il forte accento dato
alla formazione umana e spirituale più che a
quella intellettuale o accademica pur imprescindibile. La Ratio indica dei requisiti previ
all’ammissione in seminario, fa obbligo di un
corso di propedeutica per un discernimento
adeguato sulla propria vita per colmare eventuali
carenze, prima di entrare in seminario, e
insiste sulla vita comunitaria, prospettando la
necessità di seminari interdiocesani rinnovati
e adatti ai giovani d’oggi che parlano anche i
linguaggi digitali, più che di strutture con poche
persone. Senza tralasciare la formazione
dei formatori di un lavoro in équipe e raccomandando
una direzione spirituale capace di
scendere in profondità. Infine, il documento
pone l’accento sulla continuità tra formazione
iniziale e quella permanente nella vita sacerdotale
dove la direzione spirituale e il sacramento
della Riconciliazione sono punti fermi e irrinunciabili.
Lo scopo è forticare la dimensione
umana e spirituale del seminarista che deve
acquisire una maturità e una fortezza interiore
comprovata sul terreno della vita di oggi e delle
sue esposizioni. Vogliamo cioè dei sacerdoti che
hanno vissuto la vita in famiglia con la precarietà
che oggi la caratterizza, la vita comunitaria
della parrocchia, e quella del mondo, così da
avere i piedi per terra quando dovranno ripercorrere
le stesse strade della vita e del mondo
come pastori di un gregge».
Anche i preti vivono la crisi. Talvolta,
sembra che il celibato rappresenti un peso
eccessivo per alcuni sacerdoti. È così?
«Tante situazioni possono sorprendere in
modo aggressivo il prete e turbarne il ministero.
Riguardo ai presbiteri che vivono situazioni
di fragilità, direi che essi non vanno mai
lasciati soli. Hanno bisogno di affetto, vicinanza
e condivisione. Certamente vi sono a volte
delle mancanze strutturali che sarebbero dovute
essere verificate in seminario oppure una
scarsa cura della vita interiore che nel tempo
ha
a
ffievolito l’ardore sacerdotale. Tuttavia mi
sento di escludere che la scelta del celibato sia
un ostacolo, un peso o un pericolo. È certamente
un’esigenza radicale, ma prima di tutto è un
dono che si riceve dalla bontà del Signore che
esige uno stile di vita adeguato e rappresenta
un tesoro da custodire. D’altra parte, sarebbe
ingenuo pensare che un tale impegno sia molto
più gravoso di alcune sfide a cui sono chiamati
i laici sposati; il matrimonio, ad esempio, richiede
l’esercizio di una fedeltà quotidiana e
una disciplina di mente e cuore non indifferente
che comprende la stessa castità e una fervida
volontà di uscire da sé stessi per farsi dono
all’altro. Se vissuto bene, da persone mature
e serene aperte a relazioni personali e pastorali
significative, il celibato può diventare una
grande risorsa e un segno del Regno di Dio. In
generale, dobbiamo avere cura dei preti, sentirli
come fratelli nella fede ed evitare di trasformare
in uno spettacolo ludico le loro eventuali
sofferenze o debolezze».