«È una scelta profondamente
sua. Penso che l’avesse presa
già qualche mese fa. E credo
che ne abbia parlato unicamente
con i collaboratori più stretti, quelli
che avrebbero dovuto accompagnarlo in questo
periodo di passaggio. Ma sono convinto
che la decisione di dimettersi sia stata sin dal
primo istante irrevocabile, motivata dal profondo
amore che Benedetto XVI ha per la
Chiesa e dalla profonda responsabilità che
sente nei riguardi dell’esercizio del ministero
petrino».
Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente
del Pontificio consiglio della cultura, la prossima
settimana, dal 17 al 23 febbraio, predicherà
gli esercizi spirituali al Papa e alla Curia
romana sul tema Il volto di Dio e il volto
dell’uomo nella preghiera salmica.
«Il Papa ha
voluto personalmente confermarmi il loro svolgimento. Immagino gli esercizi come
una “camera di compensazione” che consentirà
allo stesso Benedetto XVI, e a tutti noi
cardinali, di immergerci spiritualmente nella
contemplazione di Gesù Cristo dopo le ovvie
emozioni di questi giorni. E per quanti
parteciperanno al Conclave sarà anche il momento
di chiedere allo Spirito Santo l’assistenza
per la scelta del nuovo Pontefice».
Le conseguenze del “passo indietro” del Papa
agitano l’agenda del cardinale Ravasi, già
di per sé fittissima. Per il Cortile dei Gentili gli
arrivano richieste di incontri da tutti gli episcopati
del mondo. Scrive articoli e libri quasi
a getto continuo, con linguaggio comprensibile
a tutti, senza mai perdere la profondità
dell’analisi e del pensiero. Ha una presenza seguitissima
su Twitter, di cui è entusiasta. Riesce
a dialogare con credenti e non credenti.
Ma gli interessa stabilire un contatto soprattutto
con i giovani.
Il cardinale Gianfranco Ravasi ci riceve
nel salottino del suo ufficio, in via della
Conciliazione, a Roma. Ci ricorda il dialogo
su “Il Dio ignoto” con il presidente Giorgio
Napolitano ad Assisi, ci parla del viaggio
dello scorso settembre a Stoccolma, dove
ha parlato all’Accademia reale svedese delle
scienze, il luogo dove si assegnano i premi
Nobel. E ci anticipa l’appuntamento in
Messico, nell’Università statale della capitale,
primo sacerdote a mettere ufficialmente
piede in quell’ateneo. Un’intensa attività
culturale e pastorale per annunciare il Vangelo
a un mondo refrattario alla Parola di
Dio. L’uomo d’oggi, infatti, come diceva papa
Paolo VI, non ascolta più i maestri, ha bisogno
di testimoni.
– Eminenza, esistono ancora dei testimoni?
Chi sono?
«San Paolo andava anche oltre quando
scriveva ai Corinzi: “Potreste avere diecimila
pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri”
(1 Cor 4,15) e si proponeva più come padre
che maestro. Ora, come è noto, non è difficile
diventare geneticamente padri; “essere”
un padre, questo è arduo e impegnativo.
Lo stesso vale per la testimonianza. Avere il
nome di Dio sulle labbra, proclamare i valori
morali è spesso un esercizio compiuto anche
da chi ha un’esistenza priva di fede e di etica
autentica, come si ha in modo evidente in alcune
figure politiche contemporanee. È vero
che i testimoni oggi non sono come il Battista, la cui voce risuonava potente, o come i
profeti del passato: l’odierna comunicazione
di massa li ignora e non dà eco alla loro voce.
Essi sono, perciò, da scovare nelle catacombe
della società, nel volontariato, nei giovani
e negli adulti che cercano le persone sole
e abbandonate o disperate. Sono da cercare
nei testimoni alti della fede in certi Paesi,
ove essere cristiano comprende persino il
martirio. Sono i tanti genitori che con fedeltà
e pazienza immensa vivono il loro compito
ogni giorno, e sono anche i molti sacerdoti
consacrati pienamente alla loro vocazione
nella Chiesa di Dio».
– Quale aspetto del volto di Cristo le sembra
più adatto, in questo momento di crisi, per
dire nuovamente la speranza cristiana all’uomo
del nostro difficile e inquieto tempo?
«Sono tre i lineamenti di Cristo che vorrei
sottolineare come incisivi per l’uomo d’oggi.
Innanzitutto il suo linguaggio che parte dai
piedi della gente (semi, terreni, pesci, monete
perse, figli in crisi e così via) rispetto a una
predicazione che spesso veleggia sopra le teste
dell’uditorio. Eppure questo linguaggio
conduce al Regno di Dio, cioè all’oltre, al mistero
divino e umano. Ecco, allora, la seconda
realtà: la verità, che non è un elaborato delle
nostre decisioni come fa il ragno con la sua tela,
ma che è un orizzonte da conquistare. Essa
ci precede e ci supera tant’è vero che Cristo la
identifica con sé stesso (“Io sono la via, la verità,
la vita”). In un mondo così superficiale, individualista,
inerte, ecco un appello a mettersi
in ricerca, a porsi le domande capitali. E il
terzo tratto è ovviamente quello dell’amore,
spoglio di ogni retorica, operoso, efficace,
creativo e legato intimamente alla bellezza, alla
libertà interiore, alla gioia».
– Non le pare che la fede dei credenti sia oggi
un po’ spenta? Come rivitalizzare un modo
di credere spesso trascinato e stanco? Ha
ancora senso la Quaresima cristiana in un
mondo distratto? Nell’Anno della fede, come
si vince la sfida della nuova evangelizzazione?
Su che cosa occorre puntare?
«Bisogna ritornare all’annuncio della Parola
di Dio nella sua forza, ricordando che essa
non è una sequenza di teoremi teologici ma è
una storia con una figura centrale che è Cristo
dotato di un volto umano, un testo che comprende
altre figure, simboli, narrazioni, esperienze
quotidiane, temi spirituali, cultura, morale.
Inoltre, la grande eredità di storia, cultura,
di testimonianza, di pensiero del cristianesimo
potrebbe ancora incidere nella modernità
così smemorata. Per questo anche la Quaresima
può essere presentata come il tempo
dell’essenzialità, della sobrietà, della purificazione
dell’occhio da tante immagini brutte e
sporche, dell’orecchio da tante chiacchiere,
del cervello da tante stupidità. È necessario
spingere l’uomo e la donna di oggi all’interrogazione,
alla sosta per riflettere, alla ricerca di
un senso in mezzo a tante banalità».
– Perché i preti non parlano più dei “novissimi”,
cioè di morte, giudizio e vita eterna?
«Spesso anch’essi guardano solo all’orizzonte
in cui sono immersi e, a furia di impegnarsi
nelle pur necessarie cose piccole, diventano
incapaci di dire e di vivere quelle grandi. Inoltre, parlare dell’altra faccia della
vita rispetto a quella rivolta verso di noi, come
definiva l’aldilà il poeta austriaco Rilke,
esige un esercizio della mente e della conoscenza.
Detto in altri termini, è necessaria
una rigorosa preparazione filosofica e teologica
che richiede tempo dedicato all’approfondimento,
tempo da non considerare come
marginale, ma come parte necessaria del
ministero pastorale. Infine è decisiva la fede
nel Cristo risorto, il cuore del cristianesimo.
La trama di sofferenze fisiche e morali (fino
al tradimento degli amici e al silenzio del Padre
sulla croce), la morte, la sepoltura – realtà
“impossibili” a un Dio eterno e perfetto –
segnano la totale vicinanza a noi di Cristo, il
Figlio divino, il suo essere uno di noi, l’Incarnazione
appunto. Ma anche quando è cadavere,
egli non cessa di essere Dio e quindi depone
nella nostra mortalità, nel dolore, nel
limite – che egli ha attraversato e vissuto –
un seme di eternità, un germe di liberazione,
espressa proprio nella Risurrezione».
– Il mistero del dolore, soprattutto quello innocente,
è un inciampo per chi crede che
Dio sia giusto e buono...
«Quella che abbiamo appena descritta nelle parole precedenti è la sostanza della risposta
cristiana alla realtà del dolore. Certo, ci sono
altre vie di scavo in questo mistero. Giobbe
scopre che Dio ha un “progetto” generale
dell’essere e della storia in cui riesce a collocare
anche il male che a noi sembra assurdo
e scandaloso: un po’ come quando uno guarda
una tela di un celebre artista da vicino e
vede solo grumi di colore talora confusi e persino
brutti. Quando si allontana e ha lo
sguardo d’insieme, scopre invece la bellezza
e il senso dell’insieme di quei mille e mille
punti di colore. Altre risposte sono state elaborate
dalle filosofie e dalle religioni. Ma è
come conquistare una città, nella quale il
centro risulta inespugnabile. È per questo
che Dio in Cristo ha scelto non solo di chinarsi
su qualche dolore per sanarlo (i miracoli),
ma ha assunto in sé tutto questo limite della
creatura e anche lo scandalo che esso comporta,
condividendolo e cercando di condurlo
a una liberazione nella nuova creazione
descritta dal libro dell’Apocalisse come meta
ultima della storia e dell’universo. Dio, quindi,
non ci sottrae al male, che è legato spesso
alla nostra libertà e alle sue scelte perverse
(ad esempio, se muore di fame un bambino
non è colpa di Dio ma dell’uomo che spreca
in armi costosissime le risorse della terra ed
è frutto del limite di creature). Egli è con noi
nel male, nel dolore, nella domanda. Come
diceva il poeta francese Claudel, “Dio non è
venuto a spiegare la sofferenza, è venuto a
riempirla della sua presenza”».
– Oggi, la cultura ha smarrito Dio e coltiva
germi di morte. Il Cortile dei Gentili le permette
di dialogare con i non credenti? E fin
dove è giusto dialogare senza “scendere a
compromessi”?
«Il Cortile dei Gentili nasce da un suggerimento
di papa Benedetto XVI modellato sullo
spazio così denominato presente nel tempio
di Gerusalemme. Là potevano accedere
anche i pagani per vedere il culto di Israele,
ascoltare le loro preghiere, scoprire la loro visione
della vita. Tuttavia un muro invalicabile
separava i Gentili (“genti”) dagli Ebrei e
san Paolo dirà che Cristo è venuto ad abbattere
questo muro di separazione per fare dei
due un solo popolo (così in Efesini 2,14-18).
È così che nasce il “dialogo” che è confronto
e non scontro: come dice questa parola di origine
greca è l’incrocio (diá, in greco) tra due
lógoi, cioè tra due visioni del mondo, due discorsi
seri e diversi tra loro. È evidente che
ognuno deve conservare la sua identità di fede
e di concezione, ma deve ascoltare l’altro
e riconoscere i semi di verità che porta. Si scopre,
così, la comune radice umana, arricchita
dalla diversità delle fedi e delle visioni della
realtà, che può rendere la società più giusta,
ma può anche far intuire spiegazioni più profonde
sulla vita e sulla morte, sul male e sul
dolore, sull’amore e sulla verità e sullo stesso
mistero che ci supera e ci avvolge».
– Maschio e femmina Dio li creò: quali sono
i pericoli dell’ideologia del gender che si vorrebbe
imporre? E, poi, il fine vita, tra accanimento
terapeutico ed eutanasia: come il credente
riesce a fare i conti con la morte?
«Le questioni etiche, in particolare quelle
bioetiche, meriterebbero un discorso molto
più articolato rispetto agli slogan e alle semplificazioni solitamente adottate. Affrontare i
problemi delicati e moralmente sensibili con
la loro cancellazione brutale (pensiamo
all’aborto e all’eutanasia) non è una scelta
umanamente corretta. In questa linea è significativo
che sulla frontiera di questi problemi
siano rimaste le religioni, il cristianesimo in
primo piano ma anche l’ebraismo e l’islam,
ad affermare con rigore e vigore il primato dei
princìpi di fondo della vita. Ora, sia per la teoria
del gender sia per le questioni bioetiche è
indispensabile ritornare, in sede religiosa e in
ambito laico, a riflettere sul concetto di “natura”,
sulla legge e sul diritto naturale, elementi
strutturali dell’essere uomini e donne. È per
questo che stiamo orientando in tale ricerca il
Cortile dei Gentili e anche il dipartimento Fede
e scienza del nostro dicastero».
– Il suo Pontificio consiglio della cultura si è
occupato, di recente, dei giovani. Come risponde
la Chiesa al loro modo sbrigativo di intendere
la morale con la logica binaria dell’informatica
save/delete (salva/cancella)?
«Le culture giovanili non sono riducibili a
uno schema unitario. Per questo stiamo dedicando
a esse un’attenzione particolare per
comprenderne le contraddizioni ma anche le
potenzialità. Infatti i giovani sono individualisti
eppure il volontariato è una delle loro caratteristiche;
sono schiavi delle mode di massa
ma hanno voglia di libertà; rigettano la
cultura ma si nutrono di musica; sono sconnessi
col nostro mondo isolandosi con le loro
cuffie ma sono connessi nella rete in un infinito
flusso di contatti; sono vitali eppure si
bruciano nella droga o nel non-senso. Proprio
per questo una testimonianza ecclesiale
efficace deve cominciare con l’ascolto e la conoscenza
del loro linguaggio e del loro mondo
per proporre soprattutto la figura di Cristo,
per loro spontaneamente affascinante,
in modo a loro comprensibile».
– Internet, Facebook, Twitter, Chiesa 2.0: è
giusto che anche il Papa usi Twitter o questa
scelta è poco consona al suo ruolo, come ha
detto qualche importante esponente del
mondo cattolico?
«A parte il fatto che i più bei tweet sono i cosiddetti
lóghia o “detti” di Gesù presenti nel
Vangelo (“Date a Cesare quello che è di Cesare
e a Dio quello che è di Dio”, “Convertitevi e
credete al Vangelo”, “Chiedete e otterrete, bussate
e vi sarà aperto” e così via), bisogna ricordare
che san Paolo ha adottato senza esitazione
la lingua e la cultura greca per ritrascrivere
il messaggio cristiano nel nuovo contesto globalizzato
dell’Impero romano. Anche i Vangeli
sono stati scritti in greco, che era l’inglese di
allora. I nuovi media sono portatori non solo
di una tecnica inedita ma di un nuovo approccio
alla realtà. Certo, questo non deve far perdere
la straordinaria eredità che l’elaborazione
teologica, culturale, morale ci ha lasciato il
cristianesimo con le sue forme espressive più
complesse, come continuamente attesta Benedetto
XVI. L’incisività e la velocità della comunicazione
attuale non deve cancellare l’approfondimento,
il ragionamento e il discorso articolato
e completo».
– A cinquant’anni dal Vaticano II è vero che
la Chiesa ha perso la sua forza profetica?
Condivide il pensiero del cardinale Martini
che, nell’ultima intervista, disse che la Chiesa
è indietro di duecento anni? E perché?
«Francamente devo dire di non considerarmi
un reperto del passato. Eppure la mia è
una presenza insediata proprio nel cuore della
Chiesa di Benedetto XVI. Penso che molte
altre persone delle varie comunità ecclesiali
operano in modo incisivo sia nella società attuale
sia nella cultura, così come si hanno
esempi molteplici di istituzioni e di testimoni
cattolici vivi ed efficaci. Certo è che da sempre
la Chiesa, che è di sua natura una realtà
“incarnata”, comprende chi si muove più speditamente
e chi è più cauto e persino restio a
muoversi. È ciò che avveniva già nella Chiesa
di Gerusalemme degli Atti degli Apostoli. Necessario
è, perciò, il dialogo interno, l’autocritica
serena e coraggiosa, la conversione costante
(la prima parola pubblica di Gesù è
“Convertitevi!”), l’essere attenti ai segni dei
tempi per non doverli sempre inseguire con
ritardi rischiosi. Il profeta biblico, infatti, è
l’uomo coi piedi piantati nel presente e che
intuisce gli sviluppi futuri. È radicato nella fede
come Abramo, il quale, però, parte per
una terra ignota; non è un nostalgico Ulisse
alla ricerca del passato pur glorioso».