Il rapimento a Cosenza di una bimba, portata via dalla clinica dove era nata da un giorno (ritrovata e restituita ai genitori dopo alcune ore) ha scioccato tante future mamme. Come è possibile? Potrebbe accadere anche a me? Non sono al sicuro in ospedale? È così facile rapire un bambino? Domande lecite, alle quali abbiamo chiesto di rispondere a chi con la sicurezza in ospedale fa i conti ogni giorno. Tutti sono concordi: i reparti maternità sono sicuri e quanto è accaduto è un episodio unico e assolutamente irripetibile.
Quello della sicurezza negli ospedali è un tema scottante, soprattutto per le continue aggressioni subite dal personale sanitario nei Pronto soccorso di tutta Italia, ma qui parliamo dei reparti e della tutela dei minori e delle loro famiglie. Le regole ci sono, chiare e molto rigide, e regolamentano identificazione, ingresso e movimento delle persone. Al tempo stesso però non si possono trasformare gli ospedali in luoghi di custodia, dove pazienti e famigliari si sentano blindati.
Come fare allora a sentirsi sicuri, in un reparto come quello di maternità, in cui gioia e serenità dovrebbero regnare sovrane? Ecco che cosa ci hanno risposto gli esperti.
Il direttore sanitario: massima attenzione nella tutela dei diritti
«Quello della sicurezza da sempre è uno dei problemi più sentiti», dichiara Umberto Fiandra, direttore sanitario dell’ospedale Sant’Anna di Torino. «Nei reparti maternità, la paura più diffusa non è tanto il rapimento quanto lo scambio in culla». Un timore comprensibile, in una fase così delicata della vita di una coppia, ma che secondo gli addetti ai lavori appartiene al passato, in quanto i protocolli in vigore nelle strutture sanitarie mettono al riparo bambini e genitori da questo rischio.
«Le regole ci sono, e sono rigide e precise», prosegue Fiandra «e noi siamo attentissimi nel controllo degli accessi, per garantire la massima serenità alle neomame». Quindi perché, nonostante tutto questo, a volte qualcosa non funziona? «Perché l’ospedale non è una banca (e poi nemmeno la banca è inviolabile, ndr.). E non possiamo certo gestirlo mettendo le forze dell’ordine all’ingresso, “militarizzando” i reparti. Permettere alle pazienti di ricevere visite di parenti e amici, come è giusto che sia, e garantire al tempo stesso la sicurezza totale intorno a loro è un equilibrio molto difficile da mantenere, ma è il sogno di qualunque direttore sanitario e quindi resta il nostro obiettivo primario. Per fortuna episodi come quello di Cosenza sono casi isolati».
Essere circondate dalle persone care è il desiderio della maggior parte delle puerpere, che spesso dopo il parto si sentono più fragili e hanno bisogno di supporto e rassicurazioni. Nonostante gli orari di visita e le norme da rispettare in reparto, controllare a vista chi va e chi viene non è cosa semplice. E poi non tutte le gravidanze sono uguali: ci sono pazienti psichiatriche o tossicodipendenti, con accanto le loro famiglie, che possono a volte creare situazioni più a rischio rispetto alla norma. «Tutte hanno diritto di essere curate e accudite, anzi proprio perché sono più fragili devono essere maggiormente tutelate», aggiunge il direttore sanitario del Sant’Anna. «Detto questo, è ovvio che l’attenzione del personale sia massima per cercare di prevenire sia l’errore in buona fede sia tutto quello che può derivare da comportamenti illeciti».
Il risk manager: il sistema dei protocolli funziona
Esistono protocolli molto rigidi a cui le strutture sanitarie si devono attenere, che disciplinano gli accessi e le dinamiche all’interno dei reparti. «Le regole di base sono uguali per tutte le strutture sanitarie del Paese, pubbliche e private», spiega Giuseppe Vetrugno, risk manager del Policlinico Gemelli e professore associato di Medicina legale all’Università Cattolica di Roma. «Il primo passaggio che garantisce sicurezza e trasparenza nell’amministrazione pubblica in generale, e a maggior ragione in un ospedale, è l’identificazione. Quindi non solo vanno identificate le persone ricoverate, ma anche quelle che fanno loro visita. A questo scopo è prassi che i pazienti stessi siano liberi di indicare, all’inizio del percorso di cura, chi desiderano far entrare nella loro stanza e chi no». Detto ciò, ogni presidio sanitario poi ha i propri regolamenti interni, che riflettono le caratteristiche della struttura, ma senza prescindere dalla regola aurea: sapere chi entra e chi esce.
«Quando si parla di neonati la questione è ancora più delicata e perciò regolamentata in modo più severo, “agganciando” il bambino alla mamma dal momento della nascita», prosegue Vetrugno. Ciò avviene con il sistema dei braccialetti, ormai collaudato e messo in pratica in tutti i punti nascita d’Italia: dopo il taglio del cordone ombelicale, ancora in sala parto, al piccolo viene messo un braccialettino con impresso un numero e un codice, che lo associa automaticamente alla madre, che riceve lo stesso braccialetto. Al codice corrispondono non solo il nome ma anche tutte le informazioni sanitarie di entrambi.
Quello dei braccialetti non è l’unico sistema di controllo. «Dare la possibilità ai genitori del neonato di stare sempre accanto al piccolo è una priorità per l’ospedale», prosegue il risk manager del Policlinico Gemelli. «Sia per non interrompere il nuovo legame che si è appena creato con la nascita sia per garantire una maggiore sicurezza alla famiglia. Il fatto che la mamma e il papà stiano il più possibile accanto alla culla (rooming in) all’interno della stanza, singola o doppia, raggiunge un duplice scopo: quello di dare serenità ai neo-genitori che iniziano a relazionarsi con il piccolo, e allo stesso tempo garantire una situazione di massima sicurezza».
Anche il congedo dall’ospedale con il neonato avviene secondo una procedura ben precisa. «Quando il bambino viene dato alla mamma o al papà prima di uscire dalla struttura sanitaria, chi prende in consegna il piccolo deve esibire l’atto di nascita in copia», spiega Vetrugno «e questa è un’ulteriore garanzia per il minore e per le mamme e i papà».
E i bambini che non hanno i genitori? Per loro si mette in moto una macchina organizzativa speciale che li colloca in stanze vicine alla postazione di lavoro degli infermieri, in modo che il controllo sia continuo e anche l’intervento in caso di necessità sia immediato. «In particolari situazioni poi», prosegue Vetrugno «si potrebbe ricorrere all’impiego temporaneo di personale dedicato anche su base volontaria».
Parlando di sicurezza quindi possiamo stare tranquilli, il sistema funziona? «Direi di sì, e ha funzionato anche nel caso drammatico di Cosenza», conclude Giuseppe Vetrugno, «perché – nonostante la falla evidente nella rete iniziale di protezione – l’allarme è scattato subito dando la possibilità di recuperare la bimba in tempi brevi. Perciò, anche nei casi che non vorremmo mai si verificassero, la collaborazione tra le amministrazioni dimostra di essere efficiente e saper porre rimedio a situazioni molto critiche evitando il peggio».
L’ostetrica: le neomamme devono sentirsi accolte e protette
E il personale sanitario? Possono esserci false divise in circolazione? Così come viene richiesto al paziente e al visitatore di identificarsi è un diritto di chi è ricoverato sapere chi ha di fronte. «Per questo le divise dei nostri operatori in reparto sono personalizzate, “marchiate” con il logo dell’azienda ospedaliera e il nome e cognome di chi le indossa», dichiara Paola Serafini, ostetrica, dirigente delle professioni sanitarie dell’ospedale Sant’Anna di Torino.
Neo mamme e donne in dolce attesa quindi possono stare tranquille: «In un reparto maternità l’obiettivo primario è quello di fare sentire la donna accolta, accudita e protetta», prosegue l’ostetrica, «ma vale anche per i papà, ormai sempre presenti in sala parto e che da noi possono accedere anche alla sala cesareo».
La filosofia di base è: ospedale sicuro ma aperto. «La garanzia della sicurezza non è solo data dalle procedure aziendali, come quella dei braccialetti messi al bambino e alla mamma subito dopo il parto», dice Paola Serafini «ma dalla possibilità degli stessi neogenitori di restare con il piccolo sin dal primo vagito. Per non parlare della quantità di foto che scattano da subito! Inoltre i box parto sono singoli e la donna non viene mai spostata da quando entra a quando esce con il bimbo, circa due ore dopo. In questo lasso di tempo non avviene solo l’identificazione del neonato, ma le prime cure, il contatto pelle a pelle, l’attaccamento al seno».
«Anche nei casi più difficili, in cui si rende necessaria la terapia intensiva neonatale», aggiunge Serafini, «si permette l’accesso ai genitori e la costante vicinanza con il bambino. Così come la garantiamo il più possibile alle mamme con patologie particolari, più fragili delle altre».
Adattarsi alla nuova vita: per fare questo il neonato ha bisogno di tutti, mamma, papà, ostetriche, infermieri, medici. E la missione di ogni ospedale è quella di far sì che ciò avvenga nel modo più sereno possibile, per farlo passare dal luogo più sicuro in assoluto – l’utero materno – a un altro altrettanto protetto, il mondo esterno.