Dal 3 febbraio l’Egitto è solo. Chi ha strappato l’anima a Giulio Regeni ha voluto colpire in alto, il cuore stesso della democrazia. Se è presto per dare un nome all’organizzazione responsabile del rapimento, della tortura disumana e della morte del ricercatore italiano, bastava guardare il suo corpo per capire il risultato che i mandanti degli aguzzini volevano ottenere. Il silenzio, la paura, la fuga dalle università, dalle associazioni che da anni cercano di capire il groviglio mediorientale, puntando a superare stereotipi e propaganda.
In fondo era questo il lavoro di Regeni, il sogno della sua brevissima vita. Ascoltare, raccontare. Percepire nelle strade quello che il regime vieta e reprime. Superare la retorica del ricatto geopolitico dei governi militari forti come barriera indispensabile per fermare il jihadismo globale. Per questo, in fondo, aveva passato anni nelle università europee ed era questa la storia che aveva raccontato tra le righe dei suoi due articoli pubblicati sul manifesto e sull’agenzia Nena-news.
Quella sera Giulio aveva un appuntamento
Quello che sappiamo degli ultimi suoi dieci giorni di vita è ancora troppo poco. Lunedì 25 gennaio è a casa, nel suo appartamento nella zona residenziale del Cairo, perfettamente consapevole del clima pesante e rischioso che si viveva in città nel giorno dell’anniversario della rivoluzione. I pochi testimoni che in questi giorni hanno trovato il coraggio di parlare raccontano il suono delle sirene, la presenza massiccia delle forze di sicurezza nelle strade, il rischio che si correva nel farsi trovare nei posti chiave, come piazza Tahir.
La sera Giulio aveva un appuntamento. È sera al Cairo. Alle 19,40 riceve la telefonata dal professore universitario della British University Gennaro Gervasio, un amico di quel mondo di arabisti arrivati da mezza Europa, che compongono l’universo accademico internazionale della capitale egiziana. Un motore intellettuale che tanto infastidisce le autorità.
La chiave di quella sparizione è all’interno dei quei 18, 20 minuti
«Esco alle 20», spiega Regeni all’amico. È l’ultimo contatto, prima del rapimento. «Gervasio ha riferito all'Ambasciata di avere ripetutamente provato a chiamare Giulio tra le 20:18 e le 20:23, senza ottenere risposta; a partire dalle 20:25, invece, il cellulare del ragazzo risulta spento», è la ricostruzione dei momenti successivi fatta dal sottosegretario Benedetto Della Vedova alla commissione Esteri della Camera dei deputati.
Il cellulare non si accenderà mai più e l’apparecchio non è stato ritrovato insieme al corpo. La chiave di quella sparizione è all’interno dei quei 18, 20 minuti (o forse anche meno), ovvero il tempo trascorso tra la partenza da casa di Regeni e il momento in cui viene fermato.
Campagna di disinformazione
Fin dai momenti immediatamente successivi al ritrovamento del cadavere, che avverrà il 3 febbraio, poche ore dopo il colloquio riservato tra la ministra dello sviluppo economico Federica Guidi con il presidente al-Sisi (a proposito: non ritiene utile la ministra raccontare i dettagli di quell’incontro?), parte una campagna di disinformazione sistematica. Oltre alle palesi bugie – che apparivano più come una provocazione – sullo stile “è morto in un incidente stradale”, su diversi media appare la versione di Regeni “testa calda”. “Voleva partecipare alle manifestazioni”, “è stato preso durante una retata”, “è andato a piazza Tahir, nel giorno dell’anniversario della rivoluzione”. Insomma, se l’era cercata.
Appare poi su un blog italiano la notizia – falsa e anche un po’ avvelenata – di una sua appartenenza all’Aise. Insomma, una spia, quella morte faceva parte del rischio del mestiere. Fandonie, depistaggi, o ricerca a tutti i costi della spiegazione facile e clamorosa? Poco importa: tutte piste che portavano lontano dalla verità.
La ricostruzione del governo italiano finora si ferma alle 20.18 del 25 gennaio
La ricostruzione fornita dal governo italiano fino a questo momento si ferma sostanzialmente qui, alle 20.18 del 25 gennaio scorso. Quello che avviene dopo è ancora nebuloso e pieno di domande. L’ambasciata italiana viene avvertita subito, un paio d’ore dopo la scomparsa di Giulio Regeni. Per sei giorni, però, la notizia viene mantenuta sotto riserbo, facendo lavorare esclusivamente la nostra diplomazia.
L’opinione pubblica viene tenuta all’oscuro, nessun appello esce prima della sera del 31 gennaio, quando il professor Gennaro Gervasio lancia, alle 20.55, l’hashtag su twitter #whereisgiulio, dopo l’uscita di un primo articolo sul sito dell’inglese Dailymail (il link: http://www.dailymail.co.uk/wires/afp/article-3425478/Italy-urges-Egypt-resolve-missing-student-mystery.html).
Le telefonate di Giulio Regeni venivano registrate?
In queste ultime ore i giornali egiziani hanno fornito alcuni nuovi elementi, alcuni dei quali, se confermati, potrebbero rafforzare il sospetto di un coinvolgimento degli apparati di sicurezza nella scomparsa di Regeni: “I detective hanno investigato i suoi movimenti prima della scomparsa del 25 gennaio e ascoltato le registrazioni delle sue ultime chiamate sul cellulare, con l’aiuto dell’operatore telefonico”, si legge sul Egypt Independent. Il giornale cita come fonte il Giza Security Directorate, struttura incaricata delle indagini. Dunque le telefonate del ricercatore erano registrate. Visto lo stato di polizia dell’Egitto questa potrebbe anche essere una pratica comune, soprattutto con gli stranieri. Non è un caso che l’agenzia di sicurezza interna egiziana risulti tra i clienti della milanese Hacking Team, specializzata nella fornitura di sistemi di spionaggio digitale, come emerge dalle e-mail interne pubblicate lo scorso luglio da Wikileaks.
Un appello alla verità firmato da 4.600 professori di tutto il mondo
Attorno al caso è sceso un pesante clima di paura tra i ricercatori e, più in generale, tra gli espatriati italiani presenti al Cairo. Regeni non era considerato particolarmente a rischio, non sembrava possedere informazioni sensibili tali da attirare l’attenzione delle forze di sicurezza. Se è toccato a lui, tutti sono in pericolo: è il pensiero che domina la comunità accademica internazionale in Egitto.
Subito dopo il ritrovamento del corpo due docenti di Cambridge hanno diffuso un appello, firmato da 4.600 professori di tutto il mondo, chiedendo “verità e giustizia”. Non solo al governo di al-Sisi, ma anche a quello italiano, formalmente in prima fila nelle indagini. Il cadavere di Giulio, devastato dalle torture, si sta trasformando in un punto di svolta, senza ritorno. Non solo per l’Egitto.