il segretario Pd Enrico Letta (Ansa)
“Chiudiamoci in una stanza a pane e acqua e buttiamo la chiave finché non arriviamo a un soluzione condivisa”: saranno state le reminiscenze storiche del liceo o la militanza nell’Azione Cattolica, fatto sta che la prima metafora saltata in mente a Enrico Letta per esprimere l’urgenza di trovare un accordo sul chi mandare al Quirinale è stata quella del conclave “viterbese” iniziato nel 1268. Nientemeno. Perché quello non fu certo un conclave qualsiasi, ma il più lungo della millenaria storia della Chiesa cattolica, un’elezione “clausi cum clave”, appunto, che durò ben 1006 giorni. Da far impallidire, cioè, anche l’estenuante elezione del presidente Leone nel 1971 (giusti 700 anni dopo quel conclave monstrum) avvenuta alla fine di 23 scrutini.
Insomma, apertis verbis, la citazione del leader dem si potrebbe tradurre più o meno così: “Prima che troppe fumate nere rendano l’aria politica irrespirabile e lo stallo del voto palesi a tutti l’ennesima, stucchevole prova di incapacità di dialogo tra parti politiche più avvezze all’ostruzione che alla soluzione, cari colleghi diamoci una mossa. Il Paese ci guarda e ci giudica. Post scriptum: niente "rose" dal centrodestra”.
Ma che accadde davvero in quei 33 mesi che sconvolsero il Papato assieme alla tranquilla vita di Viterbo, fino al primo settembre dell’anno domini 1271? Di tutto e di più. A causare la più lunga sede vacante della storia fu la morte di Clemente IV a Viterbo il 29 novembre 1268.
Dal 1059, con un decreto di papa Niccolò II, il diritto di elezione del pontefice era stato trasferito ai soli cardinali vescovi. Era stato invece Alessandro III ad introdurre nel 1179 la norma della maggioranza dei due terzi del collegio cardinalizio per l’elezione del Papa. I 19 cardinali componenti il sacro collegio erano storicamente divisi in due fazioni: la Pars Caroli (filo-francese e filo-angioina e "guelfa"), che poteva contare su 7 o 8 voti, e la Pars Imperii (filo-tedesca e "ghibellina"), cui facevano riferimento una decina di cardinali, due dei quali, peraltro, morirono durante le votazioni. Ma a rendere ancor più complicata l’elezione erano ulteriori divisioni e conflitti personali che avevano creato quattro fazioni l’una contro l’altra armate. In questo clima già surriscaldato e poco propenso all’accordo, si aggiunse un grave fatto di sangue che scosse Viterbo proprio durante il conclave: Enrico di Cornovaglia, nipote di Enrico III d’Inghilterra, durante una messa nella chiesa di San Silvestro, venne barbaramente assassinato dal cugino Guido di Monfort; fatto riportato anche da Dante nel XII canto dell’Inferno. Un clima non certo favorevole a un accordo rapido.
All'inizio i cardinali votarono in cattedrale, in ossequio alla tradizione che voleva le elezioni nella cattedrale della città ove era deceduto il precedente Pontefice. Ma dopo un anno di “fumate nere”, o schede bianche, per attualizzare il contesto, e i tuonanti sermoni di fra Bonaventura da Bagnoregio, che esortava i cardinali a prendere celermente una decisione, si cambiò metodo: per risolvere lo stallo dei porporati e dare un segnale alla popolazione viterbese oramai insofferente, il podestà e il capitano del popolo decisero la “clausura” delle porte della città, onde evitare qualsiasi pressione politica esterna, e imposero l’isolamento dei cardinali nel palazzo dei Papi, senza possibilità alcuna di lasciare l’edificio (clausi cum clave, chiusi a chiave, appunto), fino a che non avessero eletto il nuovo pontefice.
Ma neanche queste misure sortirono a molto. Il capitano del popolo così decise di inasprire ulteriormente le condizioni dei prelati, riducendo loro il vitto. Il dì di Pentecoste, l’uno giugno 1270, i viterbesi scoperchiarono addirittura il tetto del palazzo dov’erano rinchiusi i cardinali per indurli a decidersi. Pare che a suggerire di scoperchiare la sala del conclave fosse stata una battuta arguta del cardinale inglese John da Toledo che, rivolgendosi agli altri membri del collegio con tipico humor britannico, avrebbe esclamato: “Scopriamo questo tetto, poiché lo Spirito non riesce a penetrare per siffatte coperture”.
Nonostante tutto ciò, per avere il nome del nuovo papa, si dovette attendere fino al settembre 1271 e l’istituzione di una specie di commissione ristretta di sei cardinali a cui delegarono l’elezione. La scelta, alla fine, cadde su un nobile piacentino, collega all’università di Parigi di Tommaso d’Aquino, quel Tedaldo Visconti, stimato per la sua onestà e saggezza, che non era però né cardinale e nemmeno sacerdote, perché aveva ricevuto solo gli ordini minori, e che in qui giorni si trovava a mille miglia di distanza, cioè a San Giovanni d’Acri, in Terrasanta, a combattere per la nona crociata. Una volta avvisato, si precipitò a Viterbo, dove giunse il 10 febbraio 1272, e vi fu ordinato prete il 13 marzo dello stesso anno. Quindi si recò a Roma per venire incoronato Papa il 27 marzo 1272 con il nome di Gregorio X. Due anni dopo, memore dell’insopportabile lunghezza del conclave di Viterbo, e delle disposizioni dei suoi reggenti, promulgò la Costituzione apostolica Ubi Periculum, nella quale si codificavano le regole del conclave, con la clausura obbligatoria. Regole precise vennero dettate anche per il vitto, in particolare, che dopo tre giorni dall’inizio dell’elezione il cibo fosse ridotto a un solo piatto per pranzo e cena, e che dopo altri cinque giorni, le vivande concesse fossero solo acqua, pane e un po’ di vino, fino alla decisione. Insomma fame e sete avrebbero dovuto portare buon consiglio e vincere le faziosità.
“Cardinal” Enrico Letta è stato ancor più drastico di papa Gregorio X: ha tolto anche il vino. Se clausura dev’essere, deve aver pensato, che sia vera. Il Colle val bene una mensa.