La terribile rivolta in molte carceri italiani che ha mietuto 14 morti e fatto registrare una ventina di evasi sembra ora sotto controllo, anche perché in realtà le proteste volevano essere un’azione dimostrativa, e non distruttiva. E tuttavia il bilancio è pesante: una trentina di istituti penitenziari, in tutta Italia, messi a ferro e fuoco, quasi contemporaneamente, come se davvero i detenuti si fossero passati parola; oltre ai reclusi morti, la maggior parte per overdose, alcuni agenti penitenziari feriti, e tante, tante celle devastate. Perché, in carcere, non circolano armi e nemmeno esplosivi, ma a dare fuoco a un materasso basta un attimo, anche se rischi l’intossicazione (e di detenuti intossicati ce ne sono stati molti in questi giorni).
A leggere questi tragici avvenimenti in filigrana emerge dunque una evidente fragilità del sistema Stato: 60 mila detenuti, circa 15 mila in più di quanto i penitenziari italiani potrebbero contenere, sono potenzialmente in grado di creare un serio problema di ordine sociale, particolarmente in un momento di emergenza.
Non a caso, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, in un messaggio ha subito rassicurato i detenuti sulla ripresa dei colloqui con i famigliari, sospesi per evitare il contagio del Coronavirus, il pretesto che ha scatenato le insurrezioni. Se non lo avesse fatto, probabilmente nessuno (Dap - Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Prap - Provveditorato regionale, responsabili istituzionali e forze dell’ordine) avrebbe potuto evitare un'escalation ancor più drammatica. Le scene trasmesse in televisione e sui social farebbero sorridere, se non fossero angoscianti: detenuti che, da nord a sud, salgono sui tetti come fossero un terrazzo su cui prendere il sole; finestre di penitenziari da cui escono nuvole nere di fumo; addirittura a Foggia un gruppo di persone che sradicano il cancello della Block house (il limite tra il perimetro del carcere e la libertà) e si arrampicano sulle inferriate con apparente facilità...
Va detto subito che le proteste sono ammissibili e legittime soltanto nella misura in cui non sono violente. Qualsiasi azione non pacifica va condannata, assolutamente. Ma la situazione che si è creata la dice lunga sul grado di resistenza del sistema carcere, logorato da anni di politiche che hanno visto più tagli che investimenti e che hanno prodotto una condizione al collasso: celle invivibili (l’Europa ha condannato l’Italia perché mancano gli spazi minimi richiesti), sovraffollamento endemico, difficoltà di accesso alle cure mediche e alle pratiche più basilari di igiene, mancanza di risorse per prevedere attività trattamentali, carenza di personale: educatori, operatori e anche agenti penitenziari che, spesso, si trovano a essere sminuiti nel loro ruolo e a dover affrontare circostanze ingestibili.
“Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, diceva Voltaire; e Papa Francesco, durante il Giubileo dei detenuti celebrato nel 2016 in Vaticano, a migliaia di reclusi arrivati da tutte le carceri italiane ha confessato: “Ogni volta che entro in un carcere mi domando perché voi e non io”, ricordando che “a volte una certa ipocrisia spinge a vedere in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere. Non si pensa alla possibilità di cambiare vita, c’è poca fiducia nella riabilitazione. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto”. Un concetto che il Pontefice ha richiamato durante l’omelia, lo scorso 24 dicembre: “Natale ci ricorda che Dio continua ad amare ogni uomo, anche il peggiore... Quante volte pensiamo che Dio è buono se noi siamo buoni e ci castiga se siamo cattivi. Non è così. Nei nostri peccati, continua ad amarci”.
La dignità di ciò che siamo non è data da ciò che facciamo, o che abbiamo fatto, ma dall’essere figli di Dio. E lo siamo tutti. Anche Caino. Che ha ucciso Abele, ma che ha cambiato vita, per dirla con Papa Francesco. Forse, anche la politica dovrebbe fare uno sforzo in più in questo senso, proprio sulla base che la costituzione italiana affida alla pena una finalità rieducativa, e non di mero castigo o, peggio, di tortura. E, forse, andrebbero davvero presi in considerazione provvedimenti - come proprio attraverso Famiglia Cristiana chiedeva ieri don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani penitenziari - che “alleggeriscano” le patrie galere, prevedendo una moratoria dell’esecuzione penale per chi ha residui di pena bassa. Pochi giorni fa, in un’intervista a un quotidiano, Silvio Di Gregorio, direttore del carcere di massima sicurezza di Opera, l’istituto italiano con il maggior numero di detenuti al 41 bis (il carcere duro a vita), ebbe a dire in proposito: “Penso che periodicamente possa procedersi a una azione misericordiosa”. E viene in mente il versetto di Matteo (9,3) quando Gesù, riportando le parole del profeta Osea, ricorda: “Misericordia voglio, e non sacrificio”. Commentandolo, Papa Francesco disse: “Non c’è santo senza passato, ne’ peccatore senza futuro”. Magari, questo potrebbe essere un tempo fecondo per risolvere l’annosa questione delle carceri italiane.