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venerdì 18 aprile 2025
 
Il delitto Varani
 

«Per vedere l’effetto che fa»

09/03/2016  Nell’omicidio di Roma non c’è solo l’abuso di droga e il sesso ma un’oscenità che travalica entrambi e ha a che fare con il peso di una cultura che ha banalizzato il corpo umano e cancellato la morte. Fino al punto di uccidere soltanto per il gusto di «vedere che effetto fa»

(Nella foto sopra: il giovane Luca Varani, barbaramente assassinato nel suo appartamento. Nella foto di copertina: uno dei presunti killer, Marco Prato - Ansa).


Non ci sono solo l’abuso di droga (che porta alla totale inconsapevolezza di sé stessi) e la perversione sessuale nel terribile delitto di Luca Varani, torturato e ucciso, secondo l'accusa, da Marco Prato e Manuel Foffo al quartiere Collatino di Roma «per vedere l’effetto che fa», come hanno dichiarato agli inquirenti. E forse c’entra relativamente  il fatto che i due assassini, entrambi rei confessi, sono rampolli di buona famiglia, con gusti e abitudini della buona borghesia romana e con un pedigree di studi all’estero.
Di casi del genere, il perfetto figlio di papà esponente della cosiddetta “società civile” che si mette a uccidere per diletto o per qualche movente banale, gli annali della cronaca nera sono pieni.

Ciò che colpisce in questo caso sono le sevizie e l’accanimento sul corpo straziato della vittima, la morbosità nel guardare lo spettacolo di un uomo che muore, i particolari sempre più raccapriccianti che emergono dalle indagini come il coltello infilzato nel petto della vittima mentre agonizzava fino ad una notte intera passata da Foffo e Prato con il cadavere di Varani davanti agli occhi. «Volevamo vedere che effetto fa», hanno detto. Lo specifico raccapricciante di questo delitto è il piacere perverso di guardare la morte di qualcuno. Nel gergo cinematografico, della fiction, l'espressione snuff o snuff movie (dall'inglese "spegnere lentamente") si riferisce a video amatoriali realizzati sotto compenso in cui vengono mostrate torture messe in pratica durante la realizzazione del film che culminano con la morte della vittima.

Su Avvenire Maurizio Cecchetti ha notato come questo macabro vouyeurismo si ricolleghi a quello della pornografia che riduce l’altro a un’immagine, a un pezzo del suo corpo, come se l’altro non fosse una persona ma solo un oggetto di cui disporre e godere a piacimento. Nel sesso come nella violenza. Come se il corpo umano – nella sua totalità unificata di corpo e anima – possa essere ridotto a pezzetti, al pari degli ingranaggi di una macchina finendo per identificare la parte per il tutto. Noi non abbiamo un corpo, siamo un corpo. Succede anche nel business delle tecnoscienze applicate alla procreazione: prendere parti del corpo (utero, seme…) e farne commercio. Spacciando il tutto, ça va sans dire, per “diritti civili”.

Ma c’è un’altra riflessione che questo delitto della banalità suggerisce. Nella società che ha rimosso il pensiero della morte, che tenta di evitarne ogni discorso, che considera il dolore una trappola o, peggio, una vergogna, ecco che la morte rientra in scena dalla finestra come spettacolo orrendo, da film horror, da videogioco, da giochetto banale di due rampolli gonfiati da droga e alcol che nel loro inconscio hanno fatto quello che hanno fatto perché lo desideravano e provavano piacere. «Per non arrivare alla pornografia della morte», ha scritto ancora Cecchetti, «bisogna credere che il corpo dell’altro non è soltanto materia animata, è sacro perché inseparabile dalla persona che è».  Ecco perché nel delitto di Roma c’è un’oscenità che travalica il sesso e la droga. Ha a che fare (anche) con il peso di una cultura che ha banalizzato il corpo e cancellato la morte.  

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