L’occasione dell’asta relativa alla cosiddetta “Lettera su Dio” di Albert Einstein (3 gennaio 1954), con la sua risonanza mediatica, può avere il pregio di alimentare il dibattito sul rapporto fra fede e scienza, teorie fisiche e cosmologiche e teologia cristiana, anche se si può facilmente incorrere in equivoci madornali, che sarebbero del tutto fuorvianti. Non intendo qui pronunciare un giudizio sulla fede del grande fisico, soprattutto perché il giudizio sul credere e sulla salvezza spetta a Dio solo (quando la Chiesa affida al Signore le anime dei defunti, aggiunge “dei quali Tu solo hai conosciuto la fede”).
Un primo equivoco consisterebbe nel ritenere le convinzioni di Einstein in materia religiosa, espresse in diversi suoi scritti, come il risultato e la conseguenza necessaria delle sue ricerche e teorie scientifiche. Del resto scienziati che condividono le sue teorie esprimono o hanno espresso posizioni diverse rispetto allo scopritore della “relatività”. Un secondo equivoco sta nel titolo, mediaticamente attribuito alla lettera, che nomina Dio una sola volta, ma che piuttosto tratta della religione e dell’appartenenza al popolo ebraico e del modo attraverso cui egli la percepisce nelle sue espressioni, a partire dalle Scritture.
Il che non significa che la sua visione dell’universo non abbia nulla a che vedere con la sua concezione religiosa. In un passaggio, molto noto di una lettera precedente (1952), il fisico aveva esplicitato in termini molto più chiari la sua posizione: “La convinzione profondamente appassionante della presenza di un superiore potere razionale, che si rivela nell’incomprensibile universo, fonda la mia idea su Dio. Chiunque sia veramente impegnato nel lavoro scientifico si convince che le leggi della natura manifestano l’esistenza di uno Spirito immensamente superiore a quello dell’uomo, e di fronte al quale noi, con le nostre modeste facoltà, dobbiamo essere umili. La mia religiosità consiste in un’umile ammirazione di quello Spirito immensamente superiore che si rivela in quel poco che noi, con il nostro intelletto debole e transitorio, possiamo comprendere della realtà. Voglio sapere come Dio creò questo mondo. Voglio conoscere i suoi pensieri; in quanto al resto, sono solo dettagli”.
Questa visione di Dio, o meglio sarebbe dire del “divino”, in rapporto al cosmo, vale a spiegare il fugace rimando al filosofo, “ebreo maledetto” (dalla sinagoga di Amsterdam), che, ironia della sorte, si chiamava Baruch (= Benedetto) Spinoza. Per questo straordinario personaggio, che ha condotto una vita integerrima e non ha mai voluto insediarsi su una cattedra universitaria, preferendo la sua professione di “tagliatore di lenti”, Dio è tutto e il tutto è Dio (Deus sive natura = Dio ossia la Natura). Qualcuno di recente ha proposto a papa Francesco di beatificarlo (insieme a B. Pascal, che presenta una filosofia diametralmente opposta). Spinoza tra l’altro, e sulla penna di un filosofo, per giunta di radici ebraiche, l’espressione suona sorprendente, aveva detto di Gesù che egli è il “sommo filosofo” e si era continuamente confrontato col IV vangelo, in particolare con la frase detta alla samaritana: “viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità” (Gv 4, 21-24, esergo al suo Trattato teologico-politico).
Ora questa concezione spinoziana ed einsteiniana del divino si può interpretare in due modi. Il primo, immediato e persino banale, spiega questa filosofia alla luce del panteismo, che condurrebbe fino all’ateismo: se Dio è tutto, allora rischia di non essere nulla. Oppure, in posizione minoritaria e forse meno condivisa, si può intendere tale visione “teologica” in senso “mistico”, ovvero alla luce del detto paolino del “Dio tutto in tutti” (1Cor 15,28). In entrambi i casi questo pensiero (soprattutto spinoziano) non sembra del tutto al riparo dalla feroce critica che gli venne mossa, secondo cui saremmo di fronte alla “più mostruosa ipotesi che mente umana possa immaginare, dove Dio in forma di turco può uccidere Dio in forma di cristiano”.
Certo il divino spirito del filosofo e del fisico non coincide col Dio di Gesù Cristo, il quale tuttavia non esclude che lo si possa percepire nell’universo da Lui stesso creato. E, siccome “non gioca a dadi” (sempre Einstein, stavolta contro il principio di indeterminazione) vi ha impresso traccia della sua sapienza e intelligenza. Il Dio della rivelazione ebraico-cristiana non vuole solo essere “percepito” come origine del mondo e dell’uomo, ma da questi desidera essere incontrato in un rapporto amativo capace di dare senso alle umane, raminghe esistenze, perché con la rivelazione biblica siamo di fronte a un Assoluto trascendente personale, a un Tu che ci interpella e ci chiama alla comunione con sé.
Tornando alla lettera, di cui nelle cronache di questi giorni, il giudizio che lo scienziato esprime sulle Scritture “raccolta di leggende venerande, ma piuttosto primitive”, è certamente impietoso e purtroppo si ferma alla superficie dei testi, senza cercare di raggiungerne la profondità, “che sfugge al dotto, ma che il semplice sente fatta apposta per sé” (A. Rosmini). E inoltre il fatto che il popolo ebraico sia capace di nefandezze come gli altri popoli non è il vero motivo della sua diversità, che invece consiste nell’essere destinatario di un’alleanza irrevocabile e mai revocata. Infine l’affermazione che “la Parola di Dio non è altro che l’espressione della debolezza umana” non è per nulla disdicevole, visto che debolezza, miseria, sofferenza, solitudine, morte appartengono alla nostra condizione (Einstein stesso aveva parlato di “intelletto debole e transitorio”), la quale rimarrebbe indecifrabile, come il dolore innocente sarebbe assurdo, se la Parola che salva non li illuminasse.