Contribuisci a mantenere questo sito gratuito

Riusciamo a fornire informazione gratuita grazie alla pubblicità erogata dai nostri partner.
Accettando i consensi richiesti permetti ad i nostri partner di creare un'esperienza personalizzata ed offrirti un miglior servizio.
Avrai comunque la possibilità di revocare il consenso in qualunque momento.

Selezionando 'Accetta tutto', vedrai più spesso annunci su argomenti che ti interessano.
Selezionando 'Accetta solo cookie necessari', vedrai annunci generici non necessariamente attinenti ai tuoi interessi.

logo san paolo
venerdì 20 settembre 2024
 
Gli Usa e noi
 

Il "dopo Trump" e quei due virus che contagiano anche la nostra democrazia

22/01/2021  Sfiducia totale nelle élite politiche e nelle istituzioni e la dilagante disinformazione costruita ad arte stanno minando le nostre società. E hanno a che fare da vicino con le radicalizzazioni violente e gli estremismi. Dopo Capitol Hill potrebbe toccare ad altri "campidogli"?

Trump è ormai un ex-inquilino della Casa Bianca. E’ iniziata l’era Biden. Ma le nubi che s’affollano sulla democrazia americana non si sono certo dissolte dopo la cerimonia dell’Inauguration Day. Le stesse nubi che oscurano pure i cieli europei e italici, e che potrebbero far scoppiare nuove tempeste. Tant’è che qualcuno s’è chiesto con qualche ragione quale sarà, dopo Capitol Hill, il prossimo “Campidoglio”, ad essere assalito da “orde” di barbari, coi o senza corni di plastica sul capo, ma con le stesse idee posticce ramazzate su qualche sito sovversivo o complottista. Possiamo davvero escluderlo?

   Cosa ci dice, in altri termini, l’assalto insurrezionale alla sede del Congresso a Washington, il giorno dell’Epifania, cercando di andare oltre alle considerazioni politiche della prima ora, con odor di lacrimogeni ancora nell’aria? Ci dice che quanto accaduto non si può circoscrivere dentro il particolare contesto americano. Non solo per le comprensibili implicazioni che ogni evento di quel Paese ha da sempre nel resto del mondo, ma perché  dice molto, moltissimo su tutte le nostre società. Dice molto sui “meccanismi emotivi” (e non  cognitivi), come ha sottolineato Ezio Mauro, che influenzano sempre più comportamenti e scelte politiche, in giro per il mondo, indipendentemente dalla variabile “impazzita” Trump e dalla sua deriva anti-democratica ormai evidente a tutti.

   Due sono i macro-fenomeni che agitano i nostri sistemi democratici, ormai da tempo, di qua e di là dell’Atlantico. E si chiamano: sfiducia nelle istituzioni e disinformazione pervasiva. 

 

La  sfiducia nelle istituzioni e gli “Stati nervosi”

   Le istituzioni, locali,  statali o federali, siano insediate a Washington, o a Bruxelles, a Pechino o a Manila, ma anche nella più vicina Roma, vengono percepite come centri d’élite privilegiati, che si fanno i propri affari prima che i nostri interessi. Nessuna classe dirigente in giro per il mondo può tirarsi fuori da questa impasse, né infischiarsene del risentimento forte nei confronti della politica, dei governanti e dei tecno-burocrati che prendono le decisioni sulle esistenze di tutti. Così un  qualsiasi “bugiardo palese può dar voce a una verità nascosta”. Se si vive il crollo della propria comunità e della propria autostima, retoriche autoritariste e falsi miti nazionalisti diventano più attraenti politicamente della voce lontana e senza trasporto degli esperti e dei tecnocrati di governo.

   Non ci può essere “fiducia civica se la società è divisa da diseguaglianze”, osserva Antonio Sgobba, autore della “Società della fiducia”. E la fiducia, diceva un celebre Carosello, “è una cosa seria, che si dà alle persone serie”. Questo è la questione cruciale delle nostre comunità, a partire dai livelli sociali più elementari: dalla  credibilità dei genitori in famiglia, a quella dei docenti a scuola, fino a quella di scienziati e politici. E quando c’è un deficit di affidabilità nella politica, nella scienza, nell’informazione alla fine non si crede più a nessuno, eccetto che ai nostri device, e ai social che ci blandiscono con visioni del mondo che già ci appartengono. Ci restituiscono quel po’ di autostima che serve per sopravvivere in un mondo considerato ostile. E la stima, ci ricorda lo scrittore americano Ezra Klein, è sempre “a somma zero”: più te ne appropri, meno ne resta per gli altri (fino ad escludere determinate categorie dal genere umano). Da qui le pulsioni d’intolleranza, vestite da suprematismo bianco, come accade in Usa, o da razzismo anti-migranti, di stampo europeo. La verità è che nessuna società può sopravvivere senza fiducia negli altri. E quando viene a mancare nei confronti della classe politica, di lì a poco svapora anche nei confronti dei mezzi d’informazione. 

   Quanto ribolle da tempo nella pancia del Paese con la più grande democrazia del mondo, cuoce a fuoco lento da altrettanto tempo anche nelle periferie esistenziali dentro i nostri confini in Europa. Certo, gli adepti trumpiani che hanno occupato manu militari e oltraggiato il cuore della democrazia americana, nel giorno dell’Epifania, erano un’accozzaglia di gruppi estremisti, suprematisti bianchi, complottisti della prima e dell’ultim’ora, invasati miliziani in costume e senza mascherine. Una selezione dei più “duri e puri” del movimento che ha sostenuto il tycoon in questi quattro anni. Una frangia, come si dice, che non rappresenta gli americani, e neanche gli oltre 70 milioni di cittadini che hanno votato Trump. Eppure quanto accaduto il 6 gennaio dentro e fuori il Campidoglio di Washington, davanti alle telecamere di mezzo mondo c’entra col il “potere” delle emozioni e delle nevrosi che sta sempre più influenzando le società, a discapito  della fredda ragione. “Con l’invasione della tecnologia digitale nella società è sempre più complesso specificare che cosa appartenga alla mente e che cosa al corpo, che cosa sia dialogo pacifico e che cosa conflitto”, scrive lucidamente il sociologo e politologo inglese William Davies, per spiegare  cosa si muova dentro gli “Stati nervosi” (titolo del libro pubblicato nel 2018). Così si capisce anche la “potenza politica” che manifestano alcune emozioni, come nostalgia di un “passato” vero o presunto, rabbia e paura, rispetto ad altri sentimenti, o alla pura razionalità. I movimenti populisti, la vittoria di Trump nel 2016, la campagna della Brexit e l’ondata di nazionalismi che attraversa l’Europa tutta ne sono chiaro sintomo, non la causa. Piuttosto che denigrare l’influenza delle emozioni sulle società di oggi, continua Davies, forse sarebbe meglio ascoltarle e imparare da esse, prima che sia troppo tardi. Invece governi e istituzioni, di là come al di qua dell’Atlantico, balbettano di fronte a queste montanti manifestazioni di disagio quasi fisico, prima ancora che economico. Bisognerebbe valorizzare le capacità della democrazia di dar voce a paure, frustrazioni e ansie, prima che un altro aspirante golpista le cavalchi. Perché diventano eversive, se lasciate alla narrazione allucinata dei populisti. Per capirci: se una persona non si sente al sicuro, non è importante se lo sia davvero o no. E derubricare la sensazione  come irrazionalità aggrava la situazione invece che risolverla. E questo vale per le periferie di Los Angeles, come per i suburbi londinesi. La deindustrializzazione pesante del Midwest americano non è così distante da certe aree del nostro Sud, e il suo impatto genera senso di vulnerabilità, incertezza sociale e rabbia tra le comunità manifatturiere impoverite dei Grandi Appalachi, come tra quelle dei cassintegrati dell’Ilva di Taranto o dei giovani pseudo-assistiti dai redditi di cittadinanza ai piedi del Vesuvio.  

 

 Le bugie e la misinformation che avvelenano il dibattito pubblico

   L’altro virus che sta contaminando le democrazie del Nuovo come del Vecchio Continente è la montante disinformazione, cioè la circolazione incontrollata di false notizie che i social diffondono, e i media, poi, alimentano e amplificano, in una spirale perversa, che avvelena i pozzi del discorso pubblico. La principale ragione che spinge a creare contenuti ingannevoli e fake news è di natura politica. Basti pensare alle “macchine del fango”  digitali, ai messaggi d’odio, all’azione dei troll nelle discussioni, dei finti profili e dei bot che intossicano il confronto politico. Per non parlare dell’utilizzo illecito“dei big data, dei profili degli utenti a fini elettorali, come ha rivelato il recente scandalo di Cambridge Analytica, che ha costretto il patron di Facebook a scusarsi in mondovisione, ma ha anche dimostrato l’inadeguatezza della politica di fronte allo strapotere delle Big Tech. 

 L’erosione della credibilità e della fiducia nei media non è mai stata così grande in America come in Europa, cioè in Paesi con tradizioni ed esercizio di libertà di stampa consolidate. Un fenomeno preoccupante, sviluppatosi, intendiamoci, ben prima dell’avvento del digitale e dei tanto criminalizzati social. I dati del Barometer Edeman Trust sono impietosi: nell’82% dei Paesi, meno della metà dell’opinione pubblica ripone fiducia nei media; che, peraltro, non sempre hanno fatto il massimo per meritarsela. Ma è con l’arrivo dei social che la viralità dei contenuti non-fattuali è dilagata, diventando perfino modello di business. Secondo la società di ricerca Gartner nel 2022 consumeremo quotidianamente più fake news che notizie. Un problemino non da poco per la vita civile e le istituzioni democratiche di un Paese. Anche perché la disinformazione ha un ruolo decisivo nella radicalizzazione dell’opinione pubblica. Già nel 2013 il World Economic Forum metteva all’erta dal global risk of massive digital misinformation.

   L’aggressione alla troupe della Cnn e la distruzione delle telecamere dell’agenzia AP, presenti all’assalto di Capitol Hill, confermano il livello di discredito e di diffidenza ormai dilagante nei confronti dell’informazione cosiddetta mainstream, alimentati giorno dopo giorno dagli attacchi frontali di Trump, che fin dall’inizio del suo mandato ha accusato i media di essere “nemici del popolo”. “Murder the media”, “uccidi i media” hanno scritto i miliziani dell’ex-presidente Usa su una porta all’interno del Campidoglio. Frasi che evocano l’espressione usata dai nazisti per i giornali anti-Hitler: lϋgenpresse, “stampa bugiarda”.  Ma quante minacce simili troviamo in siti o profili fb di gruppi sovranisti nostrani rivolte a cronisti e giornali italiani? E quanti altri emuli di “Trump” esistono in giro per il mondo che minacciano (se non addirittura ammazzano) i giornalisti, semplicemente perché cercano di fare il loro mestiere, dalla Turchia alla Russia, da Malta alla Cina?

   Ci si informa (e, quindi, ci si disinforma), sempre più sui social, dove le fake news, certo non nate oggi,  corrono più veloci dei fatti e dove gli algoritmi ti rinchiudono dentro “camere dell’eco” polarizzate, che ti confermano le tue convinzioni, ti aggregano a un gruppo, ti accreditano come “uno dei nostri”, mentre chi sta fuori è nemico da combattere. Qualcosa che ghettizza come una setta con i suoi “love bombing”. Il “We love you” lanciato dal twitter account di Trump a chi stava  devastando Capitol Hill  assomiglia sinistramente a quello di un santone ai suoi adepti invasati. I seguaci di QAnon, tra cui spicca l’ormai famoso Jake Angeli, il rivoltoso immortalato a Washington,  mentre faceva irruzione nel Campidoglio a petto nudo, col copricapo da nativo americano, agitano il web con la delirante teoria cospirativista secondo cui Trump sarebbe in missione divina per liberare il mondo da una lobby internazionale di pedofili satanisti composta da attori hollywoodiani e esponenti democratici.          

  Incoraggiati da Trump, oggi sono un esercito di milioni di “fedeli”, sparsi negli Usa, ma anche residenti in Europa. A dire che le teorie complottiste non hanno frontiere, né si fermano alle dogane. Proliferano in rete. Il fenomeno è noto e studiato: notizie  false ma con forte carica emotiva, viralizzano e prevalgono sulla fredda analisi  e i fatti verificati. Ma le “folle” digitali, a conferma che l’online è anche offline, a volte si materializzano in folle armate marcianti su qualche piazza o campidoglio.

   L’era della “post-verità”, come alcuni filosofi e sociologi hanno definito il nostro tempo, ha una sua data simbolica d’inizio: il 2016, l’avvento dell’era Trump o, per essere più precisi, i mesi della campagna di calunnie montata contro Hillary Clinton durante la battaglia nella corsa alla Casa Bianca. Ma quello fu anche l’anno della campagna pro-Brexit e della marea  di notizie palesemente inverosimili (con ammissione delle falsità da parte degli euroscettici d’Oltremanica subito dopo le elezioni) in merito ai soldi spesi dalla Gran Bretagna per l’Europa, e a quelli che avrebbero ottenuto gli inglesi per il sistema sanitario nazionale, se si fosse lasciata l’Unione Europea. Fake news che determinarono l’esito del referendum più importante della storia recente del Regno Unito. La post-verità e la rimozione dei fatti, ha scritto lo storico americano Timothy Snyder,  “erode lo stato di diritto e apre la strada a un regime del mito”.  Non è un caso se nel rapido discorso  di insediamento il neopresidente americano Biden abbia comunque voluto ricordare: “Le settimane e i mesi precedenti ci hanno impartito una dolorosa lezione. C’è la verità e ci sono le bugie, dette per bramosia di potere o per profitto. Noi difenderemo la verità”.

   D’altra parte, diceva Chesterton: “Questo non è il tempo in cui non si crede a nulla, ma quello in cui si crede tutto”. Perfino che  la terra sia piatta, o che la luna sia ancora da conquistare; che la Brexit arricchisca gli inglesi; che i vaccini causino l’autismo, o che la cannabis serva per fermare il covid. Se c’è chi crede a queste balle, e qualcuno abita anche vicino a noi, figuriamoci se non c’è chi è convinto che le elezioni americane del 2020 siano state vinte da Trump. Con un piccolo corollario: le bugie, a volte, sopravvivono al bugiardo. Attenzione: i “trumpismi”, in giro per il mondo, sopravviveranno, alle convulsioni finali di Trump.

 
 
Pubblicità
Edicola San Paolo