Nelle stesse ore in cui Papa Francesco sbarcava a Lesbo, la Caritas Ambrosiana e la Pastorale Migranti della Diocesi di Milano organizzavano il convegno “Europa, terra promessa? L’esodo e la tentazione dei muri” presso la chiesa di San Marco. Il vicario episcopale, monsignor Luca Bressan, ha ricordato l’immagine di una bambina in lacrime di fronte al filo spinato posto lungo il suo tragitto: «Se dovessimo spiegare l’esperienza del Male, sono gli occhi di quella bambina che si chiede perché qualcuno le nega il futuro. Scegliendo come gestire quest’emergenza, noi uomini e donne europee stiamo decidendo come vogliamo essere. Da cristiani abbiamo molto da dire ad un’Europa che si trasforma in fortino inaccessibile».
Al convegno di Milano si sono ascoltate le voci delle “altre Lesbo”. Darko Tot è il coordinatore della Caritas a Belgrado: «Siamo a metà del viaggio dalla Turchia verso il Nord Europa: fino a qualche mese fa in Serbia, Macedonia e Croazia ci si fermava ventiquattro o quarantotto ore, ultimamente almeno una settimana».
Ora la rotta è quasi bloccata: «Da mesi abbiamo organizzato una rete di distribuzione di pasti caldi attraverso le parrocchie del paese, a Belgrado prepariamo pacchi per chi fugge e kit per lavarsi». A Preševo l’accoglienza è ecumenica, nella direzione indicata da Papa Francesco e dal Patriarca Bartolomeo: la Caritas cattolica offre un tè caldo e un servizio medico con mediazione linguistica, mentre la Chiesa ortodossa compra i biglietti di autobus e treni a chi è rimasto senza soldi. È dall’estate scorsa che Caritas assiste i profughi che entrano in Serbia, in media un migliaio al giorno: «Non ci siamo mai sentiti soli – dice Tot – grazie agli aiuti delle Caritas di tutto il mondo, da quella della Corea del Sud ai ragazzi di un college della Nuova Zelanda che ci hanno inviato i soldi raccolti in una colletta». Anche le Caritas europee sono in prima fila; Sergio Malacrida è appena stato in Serbia con una missione italiana e spiega: «Abbiamo percorso la rotta balcanica a ritroso, incontrando bambini scalzi o famiglie che si riparavano ancora con le coperte termiche degli sbarchi. A Polykastro, vicino all’ormai celebre Idomeni, mille persone dormono accampate in una stazione di servizio, in una terra di nessuno. Lì abbiamo visto anche un gran numero di volontari: hanno allestito una lavanderia, un servizio docce e sono pronti a intervenire a qualsiasi ora del giorno e della notte».
Da Calais, invece, Didier Dégremont porta la testimonianza di Secours Catholique, la sezione francese della Caritas di cui è vicepresidente: «In questo confine interno dell’Europa, ci sono 4.800-6.000 persone in attesa di partire per la Gran Bretagna. A fine febbraio il Governo francese ha distrutto le baracche della Jungle, la foresta attorno alla città, gestite dal Consiglio degli esiliati. Erano fatiscenti ma meglio che vivere per strada o accampati nei boschi vicini». Secours Catholique interviene ogni giorno con minimo 50 volontari: «Casa, cibo, vestiti e ascolto personale nell’immediato; in modo più strutturato abbiamo invece avviato un laboratorio scolastico per i bambini, uno sportello legale per i richiedenti asilo e un servizio medico per accedere all’ospedale cittadino. Un frate inglese organizza un momento di preghiera comune per le diverse confessioni». Infine, l’associazione prova a incidere sulle politiche: «Facciamo parte di un coordinamento di associazioni – spiega Dégremont – e periodicamente vediamo il Ministro. Anche a livello locale proviamo ad orientare le politiche di accoglienza: il Comune di Calais è ora aggressivo e ostile ai migranti ma, a 40 chilometri, una municipalità più piccola sta organizzando un’accoglienza per 2.500 profughi insieme a noi e a Medici senza frontiere».
Dal porto francese l’Inghilterra dista solo 30 chilometri attraverso la Manica. Non esistono vie legali per raggiungerla, puoi solo affidarti ai trafficanti. Di fronte all’aumento dei controlli, l’astuzia dei passeur ha partorito nuove tecniche: da chi avvolge i clienti con rotoli di alluminio, quelli argentati da cucina, a chi infila i migranti in sacchi a pelo riempiti di ghiaccio per sfuggire allo scanner termico. “Il passaggio garantito”, ovvero comprare la complicità dell’autista, costa dai 5 ai 6mila euro; per chi non può permetterselo rimane la “laffa”, il tornante, come gli eritrei chiamano una pratica che esiste da oltre un decennio. Nella zona industriale, dove la strada fa vari angoli a 90 gradi, si prova a saltare sui camion diretti in Inghilterra e obbligati a rallentare. Per Dégremont, comunque, «Calais è solo la parte più visibile e scottante del problema profughi, la punta dell’iceberg di un’Europa che non trova un accordo». Un documento diffuso il 12 aprile dalla Commissione Ue sulle politiche sulle migrazioni dà ragione all’accusa lanciata dall’esponente di Secours Catholique. Nel settembre 2015 i paesi europei si sono impegnati ad un programma di ricollocamento per 160mila persone entro il 2017. L’obiettivo appare lontano: al momento siamo fermi a 1.145 profughi trasferiti in altre nazioni del Continente, 530 provenienti dall’Italia, 615 dalla Grecia.