Wilbur Smith nel 2014 presenta "Il Dio del Deserto" al Museo Egizio, appartenente al suo popolarissimo ciclo dedicato all'antico popolo egiziano (foto Ansa)
Secondo alcuni studiosi, la religiosità dell’antico Egitto sarebbe solo apparentemente politeistica. In realtà, infatti, i saggi egizi probabilmente avevano una visione monoteistica della divinità, in maniera del tutto analoga a ebraismo, cristianesimo, islamismo e così via. La separazione in diverse entità, ciascuna delle quali a presidiare una diversa ‘funzione’, sarebbe quindi una sorta di articolazione del culto volta a renderlo più praticabile e comprensibile.
Di fatto, la saggezza dell’antica civiltà egizia esercita un fascino quasi magnetico ancor oggi, forse perché avvolta nelle nebbie dei tempi e ammantata di misteri solo parzialmente disvelati.
A tal punto che è difficile definire i contorni di ciò che s’intende per ‘saggezza’, quando si parla di epoche storiche così remote. Ed è anche in questa occasione che può soccorrerci l’inventiva di un narratore di razza, come è Wilbur Smith. Nel suo romanzo più recente, L’ultimo faraone, appartenente alla saga dei romanzi incentrati sull’antico Egitto, Smith colma lo iato tra mistero e conoscenza attraverso la risorsa più importante di uno scrittore: l’immaginazione. E, come spesso capita a chi ha un talento per il racconto come il suo, probabilmente non va molto distante dalla verità.
Ecco come, nelle sue stesse parole, si definisce Taita, il protagonista del romanzo: I più mi considerano un saggio e un filosofo, un uomo di spirito nobile e dalla natura fondamentalmente gentile e indulgente, ma sotto quella patina si cela un guerriero assetato di vendetta e uno spietato uomo d’azione.
In nuce, questa frase emblematica sembra contenere tutte le qualità di un ‘saggio’, qual è Taita: da un lato l’amore per la conoscenza, che implica una costante curiosità e un’apertura al mondo e agli altri priva di pregiudizi. Vi sono poi le qualità morali, ovvero la rettitudine e la capacità di discernere ciò che è giusto da ciò che non lo è. I modi e i comportamenti sono parte essenziale dell’essere un ‘saggio’: ecco quindi la cortesia e la capacità di perdonare.
Ma è l’ultima frase a dimostrarsi particolarmente rivelatoria: nell’antichità, un saggio non poteva che essere anche un guerriero, ferrato nell’arte militare e capace di guidare eserciti, disposto a ricorrere a qualsiasi mezzo pur di riparare un torto (a sé o alla civiltà che rappresenta).
L’evidente ambivalenza di questa definizione di saggezza da un lato la rende dinamica e fluida, mutevole in funzione delle situazioni sociali e politiche, e dall’altro contribuisce ad alimentarne il fascino imperituro, perché contiene in sé un ingrediente fondamentale: l’inatteso.
Ed è proprio da ciò che non ci si attende, da ciò che può sorprenderci, che sorge la fascinazione, e il mistero, dell’antico Egitto.