Il ponte spezzato come un biscotto incombe sul bagnasciuga del Ferragosto. Varazze, the day after, 37 chilometri a Ponente, vede Genova dalla spiaggia, in un 15 agosto limpido come pochi. Il temporale ha spazzato le nubi dal cielo e lasciato sospesa la nuvola nera dell’inquietudine che serpeggia nei discorsi della spiaggia con gli ombrelloni a righe azzurre a inizio Paese, molto frequentata da residenti che fino al giorno prima usavano il ponte Morandi come un passaggio obbligato da e verso la città. Genova per loro è un luogo di vita quotidiana, di lavoro. Il ponte era la metafora della fuga verso il mare e del rientro: un cordone ombelicale.
Ci sono passati quasi tutti, chi prima chi poi, e fanno i conti un po’ con il senso dello scampato pericolo un po’ con il sentimento solidale con quelli che sono precipitati con il ponte o che hanno dovuto lasciare le case di sotto. Sanno che avrebbero potuto trovarsi al posto loro, che chiunque tra i presenti potrebbe vivere il dramma di quelle famiglie. Sono passati sopra o sotto il ponte Morandi infinite volte, l’ultima pochi giorni, ore, minuti prima. E li contano, sgomenti, raccontandosi l’un l’altro.
C’è la ragazza, architetto, che fa progetti di interni in uno dei megastore di mobili del centro commerciale, 800 metri in linea d’aria dalle arcate implose, e aveva cambiato il turno del martedì pomeriggio: il primo pensiero va ai colleghi «che stanno tutti bene», ma passano di lì, sopra o sotto, più volte al giorno per andare e tornare al lavoro.
C’è il giovane anestesista che smonta dal turno di guardia prolungato dall’emergenza in uno degli ospedali allertati, che racconta della collega scampata al disastro, fuggita a piedi e arrivata a dare una mano in ospedale, dell’infermiere che ripete «ero appena passato di lì», dei feriti – non i più gravi, molti dei quali dirottati in altri ospedali - , «forse caduti con il ponte forse schiacciati dai calcinacci, senza che si riesca a ricostruire la dinamica perché scioccati non ricordano nulla».
C’è il padre che parla di un figlio sbarcato dalla Sardegna e passato di lì tre quarti d’ora prima della voragine, per venire a salutare famiglia e amici. Sono tutti racconti sommessi, che fanno i conti con una sorta di senso di colpa reatroattivo, che provano un po’ tutti — anche se per pudore non se lo dicono —: hanno tutti un brivido per il rischio corso e soprattutto fatto correre, pensando a tutte le volte che per approfittare di un passaggio, per godere di un saluto, hanno invitato qualcuno cui vogliono bene a cambiare programma passare di lì, sotto l’arco bianco accanto ai cavi disposti a triangolo che facevano pensare a Brooklyn.
Il pensiero successivo va ai collegamenti consueti ora interrotti chissà per quanto tra il Ponente e la città e tra il Ponente e il Levante ligure, a come a sera o l’indomani si tornerà a casa o al lavoro, passando per dove: si fanno i conti delle uscite autostradali rimaste, del giro alternativo, destinato a una congestione che aggraverà una viabilità già difficile, si fa il calcolo di quanto ci vorrà.
La sera di Ferragosto l’alternativa più sicura, anche se non affidabilissima negli orari, è il treno: alla stazione c’è una folla inconsueta: sono quelli che tornano a Genova e hanno scelto di non avventurarsi per i viadotti che portano al bivio tra l’A10 e l’A26, di non sfidare, potendo, il traffico incerto che si avvia alla città spezzata.
Dal treno per Milano guardando a sinistra nell’aria tersa si vede quel che resta del ponte sospeso sul vuoto. Si guarda con un sentimento diverso la viabilità fragile di questo territorio bucato e sospeso tra gallerie e viadotti, schiacciato tra i monti e il mare. Si fa caso alle tante case abbarbicate fin dove si può (spesso anche oltre) sulle pendici e sotto i ponti. E capita di pensare che di qui in poi il tempo della vita si conterà come da un anno zero, prima e dopo il 14 agosto 2018.