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venerdì 04 ottobre 2024
 
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Il Fidelio secondo noi

11/12/2014  Il critico di Famiglia Cristiana ieri sera ha assistito al "Fidelio", l'opera di Beethoven che ha inaugurato la stagione della Scala. Il nostro giudizio? Gli applausi vanno attribuiti tutti alla straordinaria musica del compositore e all'eccellente prova del coro. Quanto a Barenboim, la regia e i cantanti, invece...

Anja Kampe in una scena.
Anja Kampe in una scena.

Il Teatro alla Scala di Milano è famoso per due cose: la musica lirica e la puntualità. Il sipario si apre sempre all’ora ed al minuto programmati. Martedì 10 dicembre la seconda replica del Fidelio di Beethoven che ha inaugurato la Stagione 2014 – 2015 è iniziato con 5 minuti di ritardo. Il tenore Klaus Florian Vogt ha infatti dato forfait nel pomeriggio per un raffreddore. Alle 20 il nuovo sovrintendente Pereira è uscito in proscenio per annunciare che era atterrato il volo del “sostituto”: Jonas Kaufmann, ovvero il più grande tenore del mondo.

Il pubblico ha molto gradito la cosa: ritardo compreso. Quando un Teatro come la Scala propone un’opera in pompa magna (per l’inaugurazione, per la presenza di “grandi nomi”, e per l’impiego di grandi risorse e spiegamento di media) i confronti vengono naturali. Fidelio aveva come pietre del paragone scaligere le edizioni (per limitarci al direttore ma senza dimenticare cantanti ed allestimenti) di Karajan, Bernstein, Böhm, Muti. A volte il confronto è un gioco al massacro: e lo si intuisce già leggendo il cast. A volte un esercizio piacevole: ma inutile per chi legge ed ascolta oggi.

Perché l’opera lirica ed il teatro sono forme d’arte in perenne divenire: il pubblico cambia (e per fortuna ci sono giovani e meno giovani che Fidelio non l’hanno mai visto), cambiano lo stile di canto, la mentalità di ascolto, la comprensione del testo. La partitura di Beethoven non cambia: è quella, per sempre: e deve rimanere il punto di riferimento. Ma, come tutte le partiture e come tutti i capolavori, è soggetta ad infinite letture, interpretazioni, approfondimenti. E’ una partitura poco teatrale, il cui profondo significato risiede nella fede dell’autore per i grandi valori della libertà, dell’amore coniugale e della giustizia, ed il cui peso musicale è immenso, perché Beethoven è immenso.

Daniel Barenboim è un grande musicista: lo si è avvertito in questa edizione: nel quartetto del primo atto, nel finale, in alcuni colori orchestrali. Ma è discontinuo: l’ouverture sembrava non gli interessasse. I suoi tempi hanno originato molte perplessità: a volte lenti, a volte impennati. Certo la durata ne è risultata dilatata. Il coro che precede la grandiosa scena finale invece gli è quasi sfuggito di mano, come fosse l’impazzare di una folla disorganizzata per la libertà conquistata: un effetto voluto per una sua interpretazione delle intenzioni beethoveniane? Il dubbio rimane.

Perché abbia invece voluto sacrificare la bellissima e sintetica Ouverture e non abbia eseguito l’amatissima Leonora n. 3 come molti fanno nel secondo atto, proponendo come inizio dell’opera la noiosa Leonora n. 2, non lo si capisce (Beethoven ha scritto in tutto 4 introduzioni per Fidelio: le tre “Leonore” sono considerate pezzi sinfonici autonomi).

Un vezzo? Un voler comunque distinguersi? Barenboim ha avuto a disposizione un cast più votato alla recitazione che alle indicazioni vocali beethoveniane.
Che la regia sia ormai elemento centrale dei moderni allestimenti è acquisito e che i cantanti oggi debbano recitare bene pure: ma l’opera deve essere e rimanere un esercizio di canto. Con l’eccezione dello Jachino di Florian Hofmann, del Don Fernando di Peter Mattei (ed ovviamente di Kaufmann) tutti i cantanti sono apparsi inadeguati.

Molto ci si attendeva da Deborah Warner, la regista inglese che aveva già stupito il pubblico milanese con la sua
Morte a Venezia di Britten. Questo è uno dei tanti versi del libretto (che la Warner ha un poco elaborato con aggiunte per migliorarne la teatralità): “So che il misero si tormenta,/mi spiace tanto anche per lui! / Io ho scelto Fidelio, /amarlo è dolce guadagno”.

E’ verosimile che a pronunciare (nelle parti recitate) o a cantare versi come questo ci siano protagonisti vestiti in jeans,
o una donna che imita 007 quando spara ai cattivoni, o una folla (di prigionieri) vestita come una tifoseria da stadio che urla su uno dei momenti musicalmente più intensi dell’opera (quello della liberazione delle catene di Florestano da parte di Leonora)?

Fidelio
è opera universale, che canta valori universali. A nessun regista è negato il diritto di attualizzare, modificare, modernizzare un soggetto. Ma a nessun regista (soprattutto se titolata come la Warner) deve essere concesso di snaturare l’essenza drammaturgica dell’opera. Cosa che purtroppo la Warner ha fatto, e che molto ha influito sulla debolezza della parte visiva di un finale grandioso che si regge su una musica senza tempo.

Il successo, peraltro, è stato trionfale. Ma questo va ascritto a merito di Ludvig van Beethoven. Ed al fantastico Coro diretto da Bruno Casoni.

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Scala, tutto è pronto per la prima con il Fidelio
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