Parlano e ti sembra di vederlo muoversi e vivere nel racconto corale in ordine sparso degli ex “bambini Galli”, come li chiamava, in estrema sintesi, quando intestava loro cartoline. Per il resto del mondo era il giudice Guido Galli, per loro un papà avvolgente, capace di esserci – solido e lieve – nella quotidianità dei suoi cinque figli: due ragazze, Alessandra e Carla, di 20 e 17 anni; tre bambini, Giuseppe, Paolo e Riccardo, tra i 12 e i 9 anni. Lo vedi districarsi nella grande luminosa casa di Milano – che per un po’ è stata la stessa in cui parliamo – con grande agilità tra un’ordinanza e una lezione, «una versione di greco delle figlie e una partita di calcio dei ragazzi».
Carla, Giuseppe e Paolo Galli che lo raccontano, ormai padri e madri a loro volta di figli delle loro età assortite di allora, sono i primi a domandarsi «come facesse a esserci sempre e insieme a fare tutto senza farlo pesare a nessuno», anche se in quel tutto c’era il fardello non detto di un lavoro amato ma difficile ed esposto di cui conosceva i rischi. Lo vedi vivere nel racconto di tre dei suoi figli, ne senti calda e forte la presenza fisica e per contrasto ti si materializza brutale e fredda la sua improvvisa assenza. Ammesso che si possa capire che effetto fa perdere un padre così, quando si hanno tra i 10 e i 20 anni, ucciso il 19 marzo 1980, il terzo magistrato in quattro giorni con Nicola Giacumbi e Girolamo Minervini, a 47 anni, a colpi di pistola, sparati da ragazzi che avrebbero potuto essergli figli, in un corridoio dell’Università Statale dove andava a fare lezione. L’omicidio è stato rivendicato da Prima Linea, banda armata di estrema sinistra che tra il 1977 e il 1980 ha ucciso giudici, dirigenti d’azienda, agenti delle forze dell’ordine, in una guerra allo Stato dichiarata da una parte sola.
«Papà era un pilastro in famiglia, è stata una botta fortissima», racconta, Carla, giudice penale a Milano, sezione reati finanziari, dei tre quella con i ricordi più formati e la voce che si rompe ancora: «Avevo 17 anni, tornai a scuola che quasi non riuscivo a parlare, sfasata rispetto ai coetanei impegnati nelle feste dei 18 anni. Erano carini, provavano a coinvolgermi, ma a me sembrava tutto incongruo. Non ho cercato aiuti esterni, ma ricominciare è stato duro. Anche gli anni dopo sono stati difficili per mia sorella (Alessandra, oggi giudice a Genova, che era all’università ed è accorsa dopo l’omicidio, ndr. ) e per me: ogni volta che capitava a un altro rivivevi tutto». Giuseppe, oggi libero professionista in una società di consulenza nel settore dei trasporti, aveva 12 anni quel giorno, e racconta sensazioni in cui anche Paolo, ingegnere, di due anni e mezzo più piccolo, si riconosce: «Razionalmente anch’io avrei dovuto sentirmi estraneo agli altri bambini, ma, non so se perché a quell’età è tutto più inconsapevole, non mi sentivo diverso. Dobbiamo molto alla mamma, bravissima a salvare da sola la nostra quotidianità stravolta. Il peso dell’assenza di papà l’ho razionalizzato di più crescendo, quando pativo l’assenza del confronto con lui».
Sul bisogno di rievocare, invece, i caratteri di Giuseppe e Paolo divergono. Giuseppe ammette di aver approfittato per esprimersi «anche nei temi a scuola durante il liceo» e dopo non ha esitato a prendere voce pubblica davanti a evidenze che graffiavano l’anima, come il film su Sergio Segio, esponente di Prima Linea. «Io invece», replica Paolo, «faccio sempre fatica a parlarne, ancor di più ora che ho l’età di papà quando l’hanno ucciso e mio figlio la mia di allora».
Se i piccoli hanno percepito il piombo di quegli anni quando è arrivato in casa, Carla aveva l’età per capire: «Mia sorella e io studiavamo in due diversi licei “caldi” di Milano, senza essere troppo schierate: a tavola se ne parlava, dai genitori non abbiamo avuto divieti di manifestare, ma indicazioni di buon senso che ci tenevano in allerta. Penso che papà conoscesse i rischi che correva e se ne sia fatto carico in solitudine, dandone a noi una visione edulcorata. Quando mamma gli diceva, “Guido, stai attento”, rispondeva: “Tranquilla, figurati se badano a me”. Sull’agenda però aveva scritto: “Se mi succede qualcosa, chiamate il collega Armando Spataro”» . Nelle parole di tutti emerge un senso di “spreco” di persone capaci, tolte nel pieno del potenziale umano e professionale agli affetti e alla collettività: «Colpivano e lo dicevano», osserva Giuseppe, «i migliori, i più aperti, quelli che davano credibilità allo Stato che i terroristi volevano abbattere».
Carla, da giudice, misura il valore professionale: «Mi chiedo come abbia scritto, senza imporre il coprifuoco in casa, il tomo dell’ordinanza di rinvio a giudizio di Corrado Alunni (Br, poi tra i fondatori delle Forze comuniste combattenti, ndr ) per cui si sono vendicati. È impossibile darsi pace di come una follia collettiva abbia contagiato tante persone, del fatto che ancora ci sia chi le giustifica. Quando li sento, ho un pensiero scorretto: “Vorrei che ti ci fossi trovato tu”. Con il Padreterno non me la sono mai presa, non penso che si possa attribuirgli le colpe degli uomini, ma è vero che perdi fiducia nell’umanità. Da giudice però non ho mai fatto fatica a mantenere il distacco, volevo fare questo lavoro già da prima. Solo, quando mi trovo di fronte vittime di reati gravi, per cui il processo è una pena, cerco di essere più accogliente». I loro panni scomodi li ha indossati, sa come ci si sta.
(Articolo uscito su FC/11 2020)