Un libro bisogna andarselo a comprare, un giornale pure. La Tv invece va in casa delle persone senza bussare. A maggior ragione richiede un sovrappiù di cautela. Un conto è pubblicare un libro, altro è intervistarne l’autore a Porta a porta. Il diritto di cronaca è un atto di libertà: ma la libertà comporta l’esercizio della responsabilità.
Le opinioni contrapposte sono il sale della democrazia e della libertà di stampa, ma al lavoro dei giornalisti spetta la selezione delle notizie da dare, il dovere di distinguere tra verità storica e propaganda: tocca a noi decidere se sia o meno interesse pubblico dare vetrina – sulla rete ammiraglia del servizio pubblico cui tutti contribuiamo con un canone – a un libro che celebra come famiglia “normale” la famiglia di Totò Riina, l’uomo che sconta 16 ergastoli per le stragi di mafia, consegnato alla giustizia e alla storia come il capo dei capi corleonesi nella stagione più sanguinaria della storia di cosa nostra. Un libro scritto da Giuseppe Salvatore, uno dei figli di Riina, che ha scontato a propria volta una condanna per associazione mafiosa.
Qualcuno dirà, ed è vero, che Bruno Vespa ha diritto di intervistare chi vuole, anche Giuseppe Salvatore Riina, e che tutto dipende dal contraddittorio che c’è. Ma se anche a far da contraltare a Riina jr. ci fosse Maria Falcone– dato che Riina padre sta scontando tra le altre la condanna per la morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro – sarebbe difficile rimuovere in un talk show l’effetto equidistanza, l’impressione di mettere vittime e carnefici sullo stesso piano, a maggior ragione senza che dalla parte dei carnefici ci sia mai stato il minimo ripensamento. (Maria Falcone non ci sarà, ha commentato indignata, ma l’intervista sarà seguita da un dibattito cui parteciperà tra gli altri Emanuele Schifani figlio di Vito)
Lasciateci dire, però, che la libertà di informazione (che vive di verità) non può essere l’alibi per contrabbandare qualunque contenuto in nome dell’audience, lasciateci dire che in uno Stato che non ha ancora finito di combattere la mafia (e in cui ancora troppi cercano di negarla), in uno Stato in cui di mafia sono morti centinaia e centinaia di innocenti, in uno Stato in cui solo nel 2015 sono stati contati oltre 500 giornalisti minacciati dalla criminalità organizzata per averne denunciato i crimini,non possiamo permetterci da giornalisti il rischio di far da buca delle lettere al racconto edulcorato e distorto di uno dei nostri più gravi fenomeni criminali, non possiamo lavarcene le mani e non decidere – in nome di un punto in più di share - da che parte stare, non solo tra Giovanni Falcone e Totò Riina, ma anche tra la cultura di Giovanni Falcone e quella di Totò Riina, come se potessero coesistere, contrapposte ed equivalenti, col rischio di prestarsi a operazioni di propaganda.
Quando a Falcone qualcuno chiedeva se valesse la pena di rischiare la vita per questo Stato, GiovanniFalcone rispondeva: «conosco solo questo Stato». Come per dire che finché vige la Costituzione repubblicana con i suoi principi fondamentali, ed è la stessa che tutela il diritto e la libertà di informazione, lo “stato” alternativo di cosa nostra – in cui al posto del diritto vige il sopruso - non ha diritto di cittadinanza.
Non è questione di opinioni. Non è solo questione di memoria e di rispetto (lo è anche, ma non solo).È questione di non farsi strumentalizzare come giornalisti e come servizio pubblico e, peggio, di non lasciare che possano venire strumentalizzati gli ascoltatori. Nessuno dice che non si debba parlare di mafia, ma il come se ne parla, dando voce a chi, fa sostanziale differenza.