«Fare il regista? L’idea
non mi aveva mai
sorato. Fino all’ultimo
sono stato indeciso
se accettare questo
progetto e cimentarmi
dietro la macchina
da presa. Un’esperienza
che, poi, si è rivelata bellissima ed
elettrizzante». Roberto Bolle, star
internazionale del balletto, è un perfezionista.
Uno che si mette in gioco
ogni volta con l’umiltà di chi ritiene
di potere ancora migliorare. Anche quando, come lui, si è già ai vertici:
della danza, della fama, del prestigio.
Così, si è dato anima e cuore alla regia
del documentario La Fabbrica dei
sogni, un viaggio nell’anima del Teatro
alla Scala, ventiquattro ore tra il
palcoscenico e la realtà di quanti vi
lavorano anche dietro le quinte. «Mi
hanno afancato collaboratori di
grande esperienza, come il direttore
della fotograa Italo Petriccione e,
per il montaggio, Giorgio Garini. Con
questo staff d’eccezione ho potuto
raccontare un mondo che mi è caro e
che conosco. Sono arrivato a Milano
a 11 anni e per tutta la mia adolescenza
l’idea della città ha coinciso
proprio con gli spazi della Scala»
Il film con la regia di Roberto Bolle fa parte di “Milano 2015”, un affresco collettivo che indaga l’anima della metropoli nell’anno di Expo. Prodotto da Lionello Cerri su soggetto di Cristiana Mainardi, vede anche le regie, per altri documentari, di Elio (di Le Storie Tese), Walter Veltroni, Cristiana Capotondi, Silvio Soldini e Giorgio Diritti. «Ognuno vi ha portato il suo sguardo e le sue conoscenze della città. Io ho raccontato l’eccellenza di un teatro che il mondo ci invidia», spiega Roberto. «Ma l’opera racconta anche le emergenze dei dormitori, così come la vita degli immigrati di seconda generazione. Mostra le bellezze del passato e la modernità dei grattacieli».
Il film con la regia di Roberto Bolle
fa parte di “Milano 2015”, un affresco
collettivo che indaga l’anima della
metropoli nell’anno di Expo. Prodotto
da Lionello Cerri su soggetto di Cristiana
Mainardi, vede anche le regie,
per altri documentari, di Elio (di Le
Storie Tese), Walter Veltroni, Cristiana
Capotondi, Silvio Soldini e Giorgio Diritti.
«Ognuno vi ha portato il suo sguardo e le sue conoscenze della
città. Io ho raccontato l’eccellenza
di un teatro che il mondo ci invidia»,
spiega Roberto. «Ma l’opera racconta
anche le emergenze dei dormitori, così
come la vita degli immigrati di seconda
generazione. Mostra le bellezze del
passato e la modernità dei grattacieli».
Che impressione ti ha fatto Milano
quando sei arrivato da ragazzino?
«Non l’ho amata, all’inizio. Arrivavo
da una cittadina della provincia
piemontese, Casale Monferrato, dove
avevo lasciato la mia famiglia. Milano
mi sembrava caotica, frenetica. La
Scala era il mio nido, un rifugio in cui
mi sentivo accolto, integrato. Tutte le
mie giornate trascorrevano lì. Allora,
l’accademia non aveva una sede come
oggi, si trovava all’interno del teatro.
Avevamo la fortuna di fare lezione
nelle stesse sale dove provava la compagnia.
Spiavamo il lavoro da coreografo
di Rudolf Nureyev o cercavamo
di imitare Julio Bocca, che con i suoi
salti sdava la gravità. Ci intrufolavamo
agli spettacoli della sera. Un’atmosfera
unica. Fin da piccolo ho potuto
conoscere il “battito” del teatro. Se non
fossi venuto a studiare a Milano, alla
Scala, oggi non sarei chi sono. Negli
anni, poi, mi sono affezionato a questa
città. Quando rientro dalle tournée,
ora sento di ritornare a casa».
Pensi di essere riuscito a far
sentire quel “battito” nel tuo film?
«Sono solo quindici minuti, in cui
ho cercato di far scoprire tutto ciò che
si cela dietro a uno spettacolo. Il palco,
come lo vede il pubblico, dal davanti,
si vede poco. Ho mostrato il dietro
le quinte: le sarte che creano preziosi
ricami, che dai loggioni neppure si vedono;
gli hangar dove sono stoccate le scenografie; i laboratori Ansaldo dove
lavorano falegnami e costumisti; i
musicisti che provano; i ballerini che
si riscaldano. Luci e controluci della ribalta.
Tutto è in presa diretta: i rumori
sono quelli degli artigiani, delle scarpe
da punta sul legno, degli strumenti
accordati, delle voci bianche… Ogni
suono è musica in teatro. E poi arriva
l’adrenalina di quando si va in scena»
L’emozione prima di uno spettacolo
è sempre la stessa?
«Non diminuisce neanche con
anni di esperienza. Oggi sento più forte
l’energia e il calore del pubblico. Durante
il tour estivo di “Roberto Bolle &
Friends”, all’Arena di Verona c’erano 14mila persone. Avvertivo le loro aspettative,
mi arrivava l’affetto. Una sensazione
indescrivibile. Lo stesso è successo
a Caracalla, a Pompei... Danzare
all’aperto è difcile, ma certi luoghi ti
trasmettono la loro magia e mi hanno
aiutato a interpretare i personaggi dei
balletti che più amo. Ho scelto Carmen
per Caracalla, Apollo nei Templi di
Agrigento, Romeo e Giulietta a Verona.
Cerco di studiare programmi di qualità,
che siano di facile comprensione
per il pubblico. La gente viene per
curiosità e si innamora della danza. Il
linguaggio del corpo, del movimento,
del resto, è universale. Con gli anni,
la mia interpretazione è migliorata.
Quando ero ragazzo mi impegnavo a
mostrare emozioni che non conoscevo.
La vita mi ha insegnato molto e
ora riesco a immedesimarmi davvero
nei personaggi. Sono anche più indulgente
verso gli errori. Prima inseguivo
la perfezione assoluta. Ora so che in
scena si sbaglia e l’importante è saper
risolvere l’errore tecnico, creando con
l’improvvisazione gesti che arrivano
comunque al cuore degli spettatori»
E lui il cuore dei fan l’ha toccato.
Anche la danza è social e lui conta 226
mila follower su Instagram e 20o mila
su Twitter. E come le popstar ha un
gruppo di sostenitori accaniti: i suoi
“Bollerini” lo inseguono da anni in
ogni angolo del mondo.