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mercoledì 11 settembre 2024
 
 

Giovani e crisi: un futuro da progettare

13/12/2012  Un sondaggio fotografa le nuove generazioni. I ragazzi di oggi credono nella famiglia ma conducono vite precarie e sono pessimisti sul lavoro. Ecco le storie di chi ha regito.

«Per la prima volta dal dopoguerra, la nostra generazione sembra perdere le conquiste di quelle precedenti. È un fatto nuovo, vanno trovate risposte innovative. La situazione generale è indubbiamente negativa, ma per i singoli, come è capitato a noi, reinterpretare la fluidità del mercato del lavoro, passando da un campo all’altro con spirito attivo, può addirittura diventare una risorsa». Reinventarsi ai tempi della crisi.
Con un pizzico di determinazione. È la chiave con cui Marco Lampugnani e Gaspare Caliri, entrambi 31enni, hanno vinto la rassegnazione sulle opportunità del mondo del lavoro.
Grazie a un finanziamento europeo, hanno inventato un’agenzia di servizi per la dimensione pubblica. Partendo da una panchina pubblica. Proprio così. Ma facciamo un salto all’indietro.

Marco, dopo la laurea in Architettura nel 2007 a Milano, ha lavorato in uno studio di Barcellona; nel 2009 il ritorno in patria, presagendo le prime avvisaglie della crisi in Spagna (dove la disoccupazione giovanile è ormai oltre il 50 per cento).
Gaspare invece ha una laurea in Semiotica e, come ricercatore, ha avuto una serie di contratti a progetto di alcuni mesi, «il massimo della precarietà e i primi a essere tagliati quando c’è una crisi». Le cose cambiano nel 2010, «quando», come spiega Marco, «abbiamo ottenuto dalla Regione Emilia-Romagna, il finanziamento, con i soldi del Fondo Sociale Europeo, di un anno di start-up, che è la fase di avvio di un’impresa. Volevamo capire se il mercato del lavoro offriva occasioni per progetti di sviluppo urbano innovativo». In parole povere, creare servizi o oggetti per la città.

Mentre passeggiano, un giorno si rendono conto della difficoltà di trovare panchine per sedersi nei centri urbani. E così, insieme con Sonia Fanoni, salta fuori l’idea del chair-sharing, un sistema per prendere gratuitamente a noleggio, per alcune ore, una «sedia mobile» in alluminio, un ibrido tra sedia e bici, con antenna Wi-fi incorporata per collegarsi a Internet.
Il secondo progetto, Okobici, è un nuovo modello di bikesharing per migliorare la mobilità urbana con la condivisione di biciclette pubbliche. Racconta Marco: «Abbiamo costituito un’associazione. Ora partirà una società low profit, una via di mezzo tra un’azienda non profit e una a fini di lucro. Abbiamo committenti privati e pubblici, ci chiedono progetti molto diversi, ma finalizzati a rendere più vivibile lo spazio pubblico».
Spiega Gaspare: «I soldi pubblici sono pochi: tutto parte da privati che vogliono essere parte attiva del cambiamento». L’ultimo progetto mira a favorire la raccolta differenziata nel Comune di Santarcangelo attraverso i social network Facebook e Twitter. E pensare che tutto è partito da una panchina.

«È sempre più difficile vedersi con una prospettiva, dare una direzione chiara al proprio futuro», racconta Matteo, 29 anni, di Milano. La sua è una storia comune tra i tanti superlaureati “precari” che devono districarsi nella jungla di stage, tirocini formativi, collaborazioni occasionali, contratti a progetto, ritenute di acconto e voucher.
Il curriculum di Matteo è lungo: laurea triennale e magistrale in Lingue straniere con il massimo dei voti, Erasmus a Brema e vari soggiorni in Germania, corsi post-laurea al Goethe Institut, lunga esperienza in diversi campi professionali e nel volontariato.
Accanto a qualche “lavoretto”, l’esperienza più lunga è stata per una prestigiosa agenzia di monitoraggio della stampa. Tre mesi di tirocinio gratuito, poi altri tre con un rimborso spese, finalmente un anno di contratto a progetto. «Ma poi, da un giorno all’altro, mi è stato detto di rimanere a casa», racconta. A quel punto, Matteo prova la strada delle scuole non parificate per il “recupero anni”, dove insegna inglese. Paghe minime, in ritenuta d’acconto, senza contratto, con lezioni che saltano da un giorno all’altro.

Pure questa esperienza finisce, mentre continuano le traduzioni nel mondo editoriale, anche ad alto livello. Matteo non manca nessuna delle fiere editoriali più importanti (Bologna, Torino, Francoforte), traduce in italiano un libro per bambini, due per adulti (uno con Mondadori) e tutti i numeri di una rivista tedesca dedicata agli appassionati di tiro con l’arco.
Tutto con contratti a progetto o collaborazioni occasionali. Ogni mese ha un budget variabile, e fare progetti sul lungo periodo diventa difficile. Matteo pertanto deve rimanere nella famiglia di origine, che, come per molti coetanei, «mi ha aiutato anche economicamente ed è stato l’unico ammortizzatore sociale nei mesi difficili ».
La ricerca di un impiego stabile continua con tutti i metodi, dalla consegna a mano dei curricula all’invio per e-mail. «Mi sono anche iscritto al Centro per l’impiego, ma non mi hanno mai chiamato, mentre le agenzie interinali dicono che non c’è nulla per me, perché ho una formazione troppo alta».
Così, a quella economica, si accompagna una crisi delle prospettive di vita: diventa più difficile pensare al futuro e a costruire una famiglia, per non parlare del mutuo di una casa. Spiega Matteo: «Anche l’aspetto psicologico è importante, confrontarsi con i coetanei aiuta a vincere il rischio di sentirsi soli e dispersi.
Di fronte al precariato, hai quasi una crisi di identità, perché siamo abituati a essere definiti dal ruolo sociale. Che lavoro fai dice anche chi sei». Ma Matteo non si rassegna. Ha intrapreso una nuova avventura: «Da quest’anno, ho deciso di iscrivermi alla facoltà di Scienze religiose per diventare insegnante di religione. Intravedere finalmente una strada chiara mi sta aiutando molto. Forse la sfida che ha davanti la nostra generazione, segnata dallo smarrimento ma anche da tanta voglia di riscatto, è proprio questa: riuscire a non smettere di pronunciare la parola futuro con entusiasmo».

Stefano Pasta

A Fausto Colombo, massmediologo, scrittore (ultimo volume pubblicato, Il paese leggero. Gli italiani e i media fra contestazione e riflusso (1967-1994), Laterza), ordinario di Teoria e tecniche dei media presso la facoltà di Scienze politiche all’Università Cattolica di Milano, chiediamo: dove le mettiamo queste ingombranti nuove generazioni? «Bel problema. La letteratura sociologica ci parla di “generazione globale”, con tratti distinguibili di diversa natura ma condivisi, dai consumi ai comportamenti, ai media utilizzati.
Tuttavia, i giovani vivono prospettive non esaltanti e non mancano fattori di crisi. Le speranze di molti di loro sono limitate. Per esempio, non sanno se e quando andranno in pensione. Ma rispetto a quest’idea di generazione globale io sono critico, perché non tutti i giovani sono così uguali tra loro come sembrerebbe.
I giovani arabi e i giovani occidentali nutrono aspettative differenti. I primi lottano per diritti che i loro padri non avevano, i secondi per difendere diritti che i loro genitori hanno avuto».

– Pessimista?

«Non in modo assoluto, perché una crisi come quella che stiamo vivendo determina anche dei cambiamenti. Tutto sta a vedere quali saranno. È importante capire verso quale modello di sviluppo vorremo dirigerci. Siamo sicuri che rincorrere l’aumento del Prodotto interno lordo sia ancora la via giusta? Ne dubito. È giusto che siano le agenzie di rating a dare i voti a una nazione? Mi permetto di obiettare. E il modello neoliberista non avrà fatto il suo tempo? La crisi ci costringe a pensare a nuovi modelli. Se questo accadrà, ci saranno chance per le prossime generazioni».

– Ma questo significa un nuovo modo di “ideologizzare” il futuro?

«Non necessariamente. Uno dei temi che devono riemergere è quello della solidarietà. È un tema depoliticizzato in sé, quindi può offrire una spinta in più. La stessa dottrina della Chiesa dice cose, in questa direzione, non ideologiche ma ricche di spunti su cui lavorare. Sono convinto che senza solidarietà non si vada più avanti.
Ed è tempo anche per la Chiesa di parlare in modo convinto, anche più di quanto abbia fatto finora – e quel che ha fatto non è poco – al cuore delle persone. Il calore della parola all’uomo, al fratello, è decisivo per un passaggio dallo scontro alla solidarietà. La solidarietà non può essere solo un dovere ma è l’unica via d’uscita da questo periodo».

– Non sembra, però, che la politica vada in questa direzione...

«Certo. I modelli di solidarietà, da noi finora li abbiamo visti all’interno delle famiglie. Quelle che dicono: quest’anno non si va in vacanza perché altrimenti non riusciamo a far studiare i figli. Questo modello di solidarietà ora va ampliato, deve uscire dall’alveo delle famiglie per diventare sociale».

Manuel Gandin

Lui è amato dai suoi studenti, e i suoi romanzi lo sono dai giovani. Bianca come il latte, rossa come il sangue è un best seller dal 2010; il più recente Cose che nessuno sa è un’altra esplorazione del mondo giovanile, con uno sguardo che gli ha guadagnato la definizione di “anti-Moccia”.
Alessandro D’Avenia, 35 anni, è scrittore di successo, ma in primo luogo è un educatore, come insegnante di lettere al liceo classico del Collegio San Carlo di Milano. Palermitano, segnato da ragazzo dalla conoscenza di padre Puglisi, ha da poco ricevuto a Palermo uno dei premi internazionali assegnati in nome del prete ucciso dalla mafia.

«Avendo tre sorelle più giovani di me, che stanno combattendo per cercare lavoro, dal mio osservatorio ravvicinato posso confermare che l’insicurezza lavorativa produce anche un sentimento di precarietà esistenziale», ci dice D’Avenia. «Una sorella, pur essendo psichiatra, è dovuta andare a New York per trovare qualcosa.
Le altre due non vedono l’ora di sposarsi, ma con i loro fidanzati stanno meditando un abbandono della Sicilia, se non dell’Italia, perché lì il mercato del lavoro è bloccato, e dove succede questo è inevitabile che si blocchino anche i progetti esistenziali. Come si crea una famiglia se almeno uno dei due non lavora?». Continua: «C’è una certa verità nella convinzione dei giovani che per trovare lavoro serva conoscere persone che contano. Io vengo da una regione dove il conoscere qualcuno supera spesso il conoscere qualcosa. A cascata, è il sistema della politica che ormai ha innervato tutta la società civile. È meritocrazia avere il merito di conoscere qualcuno di potente? Se è così, è meglio andarsene».

Da educatore, D’Avenia sente una responsabilità primaria: «Il mio compito verso gli studenti, in un’epoca di precarietà esterna totale, è formarli a non essere precari interiormente, a essere forti, perché andranno incontro a un ottovolante. Rispetto alla mia generazione, sono più bravi nella conoscenza delle lingue, nel fare più cose contemporaneamente e nel ragionare senza confini “italici”: non hanno paura non solo di cambiare città, ma neppure di cambiare nazione. In questo credo abbiano una marcia in più. Ne hanno una in meno per il fatto che la precarietà, la capacità di affrontare qualsiasi situazione, li rende molto meno radicati in una storia familiare, personale, e quindi sono molto più in balìa di crisi. Perché poi le situazioni che incontrano determinano una pressione molto più forte. Bisogna educarli a trovare (e non è facile) un equilibrio umano già in età molto giovane. Altrimenti al primo insuccesso vanno in crisi e si disperano. Pensando a ciò che dice Shakespeare nell’Enrico V, bisogna rendere pronte le anime, perché allora saranno pronte anche le cose. Da questa crisi deve emergere un nuovo paradigma sociale, economico, di lavoro, e loro sono la generazione del guado. Dovranno trovare loro le nuove soluzioni. A differenza forse dalla mia generazione, adesso le cose non sono più pronte. Quindi è bene che lavoriamo sulle anime».

Rosanna Biffi

I giovani italiani non hanno perso solo il treno. Hanno perso anche l’ascensore. Quell’ascensore sociale che, in passato, garantiva alla generazione in arrivo almeno un minimo miglioramento delle condizioni di vita (più anni di studio, lavoro meno incerto, salari più corposi, mestieri più “nobili” ) rispetto alla generazione che si apprestava ad abbandonare il centro della scena. «Questa è di sicuro la sensazione che i giovani d’oggi hanno nell’animo», conferma Pietro Vento, direttore dell’Istituto Demòpolis e responsabile della ricerca Il futuro delle nuove generazioni nell’era della precarietà , promossa dallo Ial (Innovazione, apprendimento, futuro) nazionale in sinergia con la Cisl, che figura in queste pagine.
La ricerca in gennaio sarà presentata ufficialmente a Milano, alla presenza del cardinale Scola e del ministro Riccardi, dal segretario della Cisl Bonanni e da Graziano Terè, amministratore unico di Ial. Ma si diceva dei giovani e del loro sguardo sul futuro.
Gli anni della precarietà hanno tramutato la preoccupazione per il lavoro in una vera ossessione. «Tra le cose importanti della vita», commenta Vento, «per la prima volta il lavoro ha preso il posto della famiglia, che era per lunga tradizione il primo valore di riferimento.


Al punto che il lavoro non è più il necessario strumento di realizzazione personale e affrancamento economico: per i giovani tra i 18 e i 34 anni è una dimensione esistenziale, la prima condizione per immaginare il futuro». E la famiglia? «Il 57% dei 3.600 giovani intervistati vive ancora con la famiglia d’origine. Condizione che da un lato rassicura, perché le famiglie sono state e sono gli ammortizzatori sociali della crisi; ma dall’altro inquieta, perché la non uscita da casa è spesso il primo segno caratteristico della precarietà».

Fulvio Scaglione

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