«Per la prima volta dal dopoguerra,
la nostra generazione sembra
perdere le conquiste di quelle
precedenti. È un fatto nuovo, vanno trovate
risposte innovative. La situazione generale
è indubbiamente negativa, ma per i
singoli, come è capitato a noi, reinterpretare
la fluidità del mercato del lavoro, passando
da un campo all’altro con spirito attivo,
può addirittura diventare una risorsa». Reinventarsi
ai tempi della crisi.
Con un pizzico
di determinazione. È la chiave con cui
Marco Lampugnani e Gaspare Caliri, entrambi
31enni, hanno vinto la rassegnazione
sulle opportunità del mondo del lavoro.
Grazie a un finanziamento europeo, hanno
inventato un’agenzia di servizi per la dimensione
pubblica. Partendo da una panchina
pubblica. Proprio così. Ma facciamo
un salto all’indietro.
Marco, dopo la laurea in Architettura
nel 2007 a Milano, ha lavorato in uno studio
di Barcellona; nel 2009 il ritorno in patria,
presagendo le prime avvisaglie della
crisi in Spagna (dove la disoccupazione giovanile è ormai oltre il 50 per cento).
Gaspare
invece ha una laurea in Semiotica e, come ricercatore,
ha avuto una serie di contratti a
progetto di alcuni mesi, «il massimo della
precarietà e i primi a essere tagliati quando
c’è una crisi». Le cose cambiano nel 2010,
«quando», come spiega Marco, «abbiamo ottenuto
dalla Regione Emilia-Romagna, il finanziamento,
con i soldi del Fondo Sociale Europeo,
di un anno di start-up, che è la fase di avvio
di un’impresa. Volevamo capire se il mercato
del lavoro offriva occasioni per progetti
di sviluppo urbano innovativo». In parole povere,
creare servizi o oggetti per la città.
Mentre passeggiano, un giorno si rendono
conto della difficoltà di trovare panchine
per sedersi nei centri urbani. E così, insieme
con Sonia Fanoni, salta fuori l’idea
del chair-sharing, un sistema per prendere
gratuitamente a noleggio, per alcune ore,
una «sedia mobile» in alluminio, un ibrido
tra sedia e bici, con antenna Wi-fi incorporata
per collegarsi a Internet.
Il secondo progetto,
Okobici, è un nuovo modello di bikesharing
per migliorare la mobilità urbana
con la condivisione di biciclette pubbliche.
Racconta Marco: «Abbiamo costituito un’associazione.
Ora partirà una società low profit,
una via di mezzo tra un’azienda non profit
e una a fini di lucro. Abbiamo committenti
privati e pubblici, ci chiedono progetti molto
diversi, ma finalizzati a rendere più vivibile
lo spazio pubblico».
Spiega Gaspare: «I soldi pubblici sono pochi:
tutto parte da privati che vogliono essere
parte attiva del cambiamento». L’ultimo progetto
mira a favorire la raccolta differenziata
nel Comune di Santarcangelo attraverso i social
network Facebook e Twitter. E pensare
che tutto è partito da una panchina.
«È sempre più difficile vedersi con
una prospettiva, dare una direzione
chiara al proprio futuro», racconta
Matteo, 29 anni, di Milano. La sua è
una storia comune tra i tanti superlaureati
“precari” che devono districarsi nella jungla
di stage, tirocini formativi, collaborazioni occasionali,
contratti a progetto, ritenute di acconto
e voucher.
Il curriculum di Matteo è lungo: laurea
triennale e magistrale in Lingue straniere
con il massimo dei voti, Erasmus a Brema e
vari soggiorni in Germania, corsi post-laurea
al Goethe Institut, lunga esperienza in diversi
campi professionali e nel volontariato.
Accanto
a qualche “lavoretto”, l’esperienza più
lunga è stata per una prestigiosa agenzia di
monitoraggio della stampa. Tre mesi di tirocinio
gratuito, poi altri tre con un rimborso
spese, finalmente un anno di contratto a progetto.
«Ma poi, da un giorno all’altro, mi è
stato detto di rimanere a casa», racconta. A
quel punto, Matteo prova la strada delle scuole
non parificate per il “recupero anni”, dove
insegna inglese. Paghe minime, in ritenuta
d’acconto, senza contratto, con lezioni che
saltano da un giorno all’altro.
Pure questa esperienza finisce, mentre
continuano le traduzioni nel mondo editoriale,
anche ad alto livello. Matteo non manca
nessuna delle fiere editoriali più importanti
(Bologna, Torino, Francoforte), traduce
in italiano un libro per bambini, due per
adulti (uno con Mondadori) e tutti i numeri
di una rivista tedesca dedicata agli appassionati
di tiro con l’arco.
Tutto con contratti a
progetto o collaborazioni occasionali. Ogni
mese ha un budget variabile, e fare progetti
sul lungo periodo diventa difficile. Matteo
pertanto deve rimanere nella famiglia di origine,
che, come per molti coetanei, «mi ha
aiutato anche economicamente ed è stato
l’unico ammortizzatore sociale nei mesi difficili
».
La ricerca di un impiego stabile continua
con tutti i metodi, dalla consegna a mano
dei curricula all’invio per e-mail. «Mi sono
anche iscritto al Centro per l’impiego, ma
non mi hanno mai chiamato, mentre le agenzie
interinali dicono che non c’è nulla per
me, perché ho una formazione troppo alta».
Così, a quella economica, si accompagna
una crisi delle prospettive di vita: diventa
più difficile pensare al futuro e a costruire
una famiglia, per non parlare del mutuo di
una casa. Spiega Matteo: «Anche l’aspetto psicologico
è importante, confrontarsi con i coetanei
aiuta a vincere il rischio di sentirsi soli
e dispersi.
Di fronte al precariato, hai quasi
una crisi di identità, perché siamo abituati a
essere definiti dal ruolo sociale. Che lavoro
fai dice anche chi sei». Ma Matteo non si rassegna.
Ha intrapreso una nuova avventura:
«Da quest’anno, ho deciso di iscrivermi alla
facoltà di Scienze religiose per diventare insegnante
di religione. Intravedere finalmente
una strada chiara mi sta aiutando molto. Forse
la sfida che ha davanti la nostra generazione,
segnata dallo smarrimento ma anche da
tanta voglia di riscatto, è proprio questa: riuscire
a non smettere di pronunciare la parola
futuro con entusiasmo».
Stefano Pasta
A Fausto Colombo, massmediologo,
scrittore (ultimo volume pubblicato,
Il paese leggero. Gli italiani e i media fra
contestazione e riflusso (1967-1994),
Laterza), ordinario di Teoria e tecniche dei
media presso la facoltà di Scienze
politiche all’Università Cattolica di Milano,
chiediamo: dove le mettiamo queste
ingombranti nuove generazioni?
«Bel problema. La letteratura sociologica
ci parla di “generazione globale”, con tratti
distinguibili di diversa natura ma condivisi,
dai consumi ai comportamenti, ai media
utilizzati.
Tuttavia, i giovani vivono
prospettive non esaltanti e non mancano
fattori di crisi. Le speranze di molti di loro
sono limitate. Per esempio, non sanno
se e quando andranno in pensione. Ma
rispetto a quest’idea di generazione
globale io sono critico, perché non tutti
i giovani sono così uguali tra loro come
sembrerebbe.
I giovani arabi e i giovani
occidentali nutrono aspettative differenti.
I primi lottano per diritti che i loro padri
non avevano, i secondi per difendere
diritti che i loro genitori hanno avuto».
– Pessimista?
«Non in modo assoluto, perché una crisi
come quella che stiamo vivendo
determina anche dei cambiamenti. Tutto
sta a vedere quali saranno. È importante
capire verso quale modello di sviluppo
vorremo dirigerci. Siamo sicuri che
rincorrere l’aumento del Prodotto interno
lordo sia ancora la via giusta? Ne dubito.
È giusto che siano le agenzie di rating a
dare i voti a una nazione? Mi permetto
di obiettare. E il modello neoliberista non
avrà fatto il suo tempo? La crisi ci
costringe a pensare a nuovi modelli.
Se questo accadrà, ci saranno chance per
le prossime generazioni».
– Ma questo significa un nuovo modo
di “ideologizzare” il futuro?
«Non necessariamente. Uno dei temi
che devono riemergere è quello della
solidarietà. È un tema depoliticizzato
in sé, quindi può offrire una spinta in più.
La stessa dottrina della Chiesa dice cose,
in questa direzione, non ideologiche ma
ricche di spunti su cui lavorare. Sono
convinto che senza solidarietà non si vada
più avanti.
Ed è tempo anche per la
Chiesa di parlare in modo convinto, anche
più di quanto abbia fatto finora – e quel
che ha fatto non è poco – al cuore delle
persone. Il calore della parola all’uomo, al
fratello, è decisivo per un passaggio dallo
scontro alla solidarietà. La solidarietà
non può essere solo un dovere ma è
l’unica via d’uscita da questo periodo».
– Non sembra, però, che la politica vada
in questa direzione...
«Certo. I modelli di solidarietà, da noi
finora li abbiamo visti all’interno delle
famiglie. Quelle che dicono: quest’anno
non si va in vacanza perché altrimenti non
riusciamo a far studiare i figli. Questo
modello di solidarietà ora va ampliato,
deve uscire dall’alveo delle famiglie per
diventare sociale».
Manuel Gandin
Lui è amato dai suoi studenti, e i suoi romanzi
lo sono dai giovani. Bianca come
il latte, rossa come il sangue è un best
seller dal 2010; il più recente Cose che nessuno
sa è un’altra esplorazione del mondo giovanile,
con uno sguardo che gli ha guadagnato
la definizione di “anti-Moccia”.
Alessandro
D’Avenia, 35 anni, è scrittore di successo,
ma in primo luogo è un educatore, come insegnante
di lettere al liceo classico del Collegio
San Carlo di Milano. Palermitano, segnato
da ragazzo dalla conoscenza di padre Puglisi,
ha da poco ricevuto a Palermo uno dei
premi internazionali assegnati in nome del
prete ucciso dalla mafia.
«Avendo tre sorelle più giovani di me, che
stanno combattendo per cercare lavoro, dal
mio osservatorio ravvicinato posso confermare
che l’insicurezza lavorativa produce anche
un sentimento di precarietà esistenziale», ci
dice D’Avenia. «Una sorella, pur essendo psichiatra,
è dovuta andare a New York per trovare
qualcosa.
Le altre due non vedono l’ora di sposarsi, ma con i loro
fidanzati stanno meditando
un abbandono
della Sicilia, se non
dell’Italia, perché lì il
mercato del lavoro è
bloccato, e dove succede
questo è inevitabile che si blocchino anche
i progetti esistenziali. Come si crea una famiglia
se almeno uno dei due non lavora?».
Continua: «C’è una certa verità nella convinzione
dei giovani che per trovare lavoro serva
conoscere persone che contano. Io vengo da
una regione dove il conoscere qualcuno supera
spesso il conoscere qualcosa. A cascata, è
il sistema della politica che ormai ha innervato
tutta la società civile. È meritocrazia
avere il merito di conoscere qualcuno di potente?
Se è così, è meglio andarsene».
Da educatore, D’Avenia sente una responsabilità
primaria: «Il mio compito verso gli
studenti, in un’epoca di precarietà esterna totale,
è formarli a non essere precari interiormente,
a essere forti, perché andranno incontro
a un ottovolante. Rispetto alla mia generazione,
sono più bravi nella conoscenza delle
lingue, nel fare più cose contemporaneamente
e nel ragionare senza confini “italici”:
non hanno paura non solo di cambiare città,
ma neppure di cambiare nazione. In questo
credo abbiano una marcia in più. Ne hanno
una in meno per il fatto che la precarietà, la
capacità di affrontare qualsiasi situazione, li
rende molto meno radicati in una storia familiare,
personale, e quindi sono molto più
in balìa di crisi. Perché poi le situazioni che
incontrano determinano una pressione molto
più forte. Bisogna educarli a trovare (e
non è facile) un equilibrio umano già in età
molto giovane. Altrimenti al primo insuccesso
vanno in crisi e si disperano. Pensando a
ciò che dice Shakespeare nell’Enrico V, bisogna
rendere pronte le anime, perché allora
saranno pronte anche le cose. Da questa crisi
deve emergere un nuovo paradigma sociale,
economico, di lavoro, e loro sono la generazione
del guado. Dovranno trovare loro le
nuove soluzioni. A differenza forse dalla mia
generazione, adesso le cose non sono più
pronte. Quindi è bene che lavoriamo sulle
anime».
Rosanna Biffi
I giovani italiani non hanno perso solo
il treno. Hanno perso anche l’ascensore.
Quell’ascensore sociale che, in passato,
garantiva alla generazione in arrivo
almeno un minimo miglioramento delle
condizioni di vita (più anni di studio,
lavoro meno incerto, salari più corposi,
mestieri più “nobili” ) rispetto alla
generazione che si apprestava ad
abbandonare il centro della scena.
«Questa è di sicuro la sensazione che
i giovani d’oggi hanno nell’animo»,
conferma Pietro Vento, direttore
dell’Istituto Demòpolis e responsabile
della ricerca Il futuro delle nuove
generazioni nell’era della precarietà ,
promossa dallo Ial (Innovazione,
apprendimento, futuro) nazionale in
sinergia con la Cisl, che figura in queste
pagine.
La ricerca in gennaio sarà
presentata ufficialmente a Milano, alla
presenza del cardinale Scola e del
ministro Riccardi, dal segretario della
Cisl Bonanni e da Graziano Terè,
amministratore unico di Ial.
Ma si diceva dei giovani e del loro
sguardo sul futuro.
Gli anni della
precarietà hanno tramutato la
preoccupazione per il lavoro in una
vera ossessione. «Tra le cose
importanti della vita», commenta
Vento, «per la prima volta il lavoro
ha preso il posto della famiglia, che
era per lunga tradizione il primo valore
di riferimento.
Al punto che il lavoro
non è più il necessario strumento di
realizzazione personale e
affrancamento economico: per i
giovani tra i 18 e i 34 anni è una
dimensione esistenziale, la prima
condizione per immaginare il futuro».
E la famiglia? «Il 57% dei 3.600 giovani
intervistati vive ancora con la famiglia
d’origine. Condizione che da un lato
rassicura, perché le famiglie sono state
e sono gli ammortizzatori sociali della
crisi; ma dall’altro inquieta, perché la
non uscita da casa è spesso il primo
segno caratteristico della precarietà».
Fulvio Scaglione