È il gioco lecito o d’azzardo la nuova frontiera di guadagno per le mafie. L’incremento del gioco, quadruplicata negli ultimi 10 anni, ha scatenato gli appetiti della criminalità organizzata. Non potevano passare inosservati, infatti, gli 80 miliardi di raccolta ufficiale attraverso il gioco. Somme alle quali si aggiungono gli enormi introiti delle scommesse clandestine, del totonero, delle macchinette truccate. La Relazione della Direzione nazionale antimafia depositata questa mattina a Roma spiega che «tutto il comparto del gioco è di altissimo interesse per la criminalità organizzata. Ovviamente nel gioco illegale - quale il totonero, il lotto o le scommesse clandestine - le associazioni mafiose hanno trovato storicamente una importante forma di sovvenzione; ma anche nel perimetro legale del gioco la criminalità organizzata sta acquisendo quote sostanziose di mercato».
Appaiono dunque del tutto deluse le aspettative del legislatore che, a partire dalle liberalizzazioni del 2003, pensava di accrescere l’offerta di gioco legale per attirare e fidelizzare i giocatori sottraendoli alla criminalità. I dati hanno dimostrato invece che è aumentata la propensione al gioco dei cittadini, e che, di pari passo, si è cresciuta l’infiltrazione della criminalità mafiosa. Senza contare che, le sale da gioco lecite, spesso sono anche dei paravento per attività illegali. La criminalità, infatti, scrive la Dna, «investe acquisendo e intestando a prestanome sale deputate al gioco, per percepire rapidamente guadagni consistenti (soprattutto se le regole vengono alterate per azzerare le già scarse possibilità di vincita dei giocatori o per abbattere l’entità dei prelievi erariali) e per riciclare capitali illecitamente acquisiti». Solo per dare un’idea del volume d’affari, la Relazione fa riferimento al caso di Renato Grasso, l’imprenditore campano che si era alleato con i più grandi clan camorristici per imporre le sue macchinette nelle zone controllate dai boss. Per continuare a far utilizzare le sue macchinette, Grasso versava mensilmente, al solo clan dei casalesi, 100mila euro.
Altro punto nevralgico del contrasto alle mafie, anzi il punto principale, è quello dei beni confiscati. Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, nel presentare la relazione insieme con la presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi, ha sottolineare l’importanza della agenzia nazionale dei beni sequestrati. «Agenzia che deve funzionare perché se non riusciamo a far vivere le aziende che abbiamo confiscato abbiamo fallito ed è una sconfitta per lo Stato».
«Occorrerebbe una Iri dei beni confiscati», ha aggiunto dal canto suo la Bindi. Se la partita si gioca soprattutto sul piano dei grandi patrimoni e della capacità dello Stato di restituirli alla collettività, non va abbassata la guardia sulle fonti di guadagno storiche delle mafie, prima di tutto quelle legate al traffico di droga, definito «principale polmone finanziario delle mafie italiane». Solo per dare un’idea della grandezza del fenomeno, la Relazione riporta i dati riferiti ai sequestri nel periodo 1 luglio 2012, 30 giugno 2013: si tratta di 3.748 g di cocaina, di 838 g di eroina, di 63.132 g di cannabis, di 24 g di anfetaminici in polvere, di 18.742 dosi di anfetaminici in pastiglie e di 2.252 dosi di Lsd.
Infine la
direzione nazionale antimafia ha deciso di non entrare nel vivo del tema
sulla trattativa Stato-Mafia. Nelle oltre mille pagine della Relazione
depositata dalla Dna, al tema sono dedicate solo poche righe per dire,
testualmente, che «appare opportuno limitarsi a prendere atto della sua
esistenza e della scelta di esercitare l’azione penale da parte della
Dda di Palermo astenendosi da ogni valutazione su tali scelte».