Una storia di treni e di fuga: treni presi e treni persi, per evitare quell’altro treno, piombato, diretto alla soluzione finale di Auschwitz. Un viaggio accidentato di un’antica famiglia ebraica proveniente dalla Libia che fugge dalle bombe su Tripoli e dal rischio delle leggi razziali ormai in vigore e valide anche per le colonie. La raccontano a quattro mani, in Auschwitz non vi avrà (San Paolo, in edicola con Famiglia Cristiana da questa settimana a 9,90 euro in più) Guido Hassan e Giuseppe Altamore: il primo ci ha messo il racconto della sua infanzia accidentata dalla guerra e dal pericolo della deportazione, il secondo la ricostruzione della storia con la “S” maiuscola che la famiglia di Guido, oggi 81enne, vive e attraversa, passando da Tripoli lungo l’Italia da Sud a Nord, per poi cercare salvezza in Svizzera sul Lago Maggiore.
«La parte più difficile e interessante del lavoro», racconta Giuseppe Altamore, è stata proprio la ricerca – tra documenti e testimonianze – necessaria a far combaciare la memoria infantile dei fatti con gli eventi, i luoghi, il contesto storico, perché Guido ha vissuto tutto tra i quattro e i dieci anni, quando i ricordi nitidi sono legati a sentimenti ed episodi. Ci ha aiutati il fatto che il padre di Guido fosse un appassionato fotografo che ha documentato molti passaggi».
Il libro è nato da un incontro casuale che ha portato due persone di religione diversa a condividere un passato che non deve sfilacciarsi man mano che le generazioni passano.
Una storia insolita, per la Giornata della memoria, nel senso che non è memoria diretta di deportazione e ritorno. È, invece, una storia di scampato pericolo, in cui però il senso del rischio si vive per intero e in cui si illuminano punti della storia grande che di solito sfuggono alla memoria collettiva: la storia degli ebrei in Libia e il fatto che le leggi liberticide valessero anche nelle colonie italiane. Il fatto che il pericolo più grande, per gli ebrei in Italia, non arrivò nel 1938 con la firma delle leggi razziali, ma dopo l’8 settembre del 1943, quando la gente s’illuse che la guerra fosse finita e invece si trovò a fare i conti con l’incrudelirsi degli atteggiamenti persecutori della Repubblica di Salò nel Nord occupato dai nazisti. La tragica rastrellata dell’Hotel Meina e dei territori circostanti che costò la vita a 57 persone in Piemonte, nella zona che va dal Novarese all’Ossolano, tra l’11 settembre e il 13 ottobre del 1943, un eccidio troppo poco inciso nel ricordo.
Proprio all’Hotel Meina Guido e la sua famiglia erano diretti: sono scampati alla strage, a causa di un treno perso per un pelo.
Ed è proprio su un treno che, dopo un attraversamento di fortuna del Lago Maggiore, li sta portando a Crema, che Guido a 6 anni percepisce, come può nella sua mente bambina, il momento difficile che sta vivendo: «Salimmo su un treno e ci sedemmo in testa alla vettura. Poi, con nostra grande sorpresa, mio padre accompagnò me e mia sorella in fondo al vagone, dicendoci di stare tranquilli, seduti da soli. Il treno partì dalla stazione di Ranco e io ero molto preoccupato. Mia sorella Fiorella, di soli 4 anni, piagnucolava e mi dava delle gomitate; voleva stare con i genitori e io mi sentivo responsabile per lei. All’ennesima richiesta della mia sorellina, chiamai ad alta voce mio padre. Lui si alzò, si avvicinò e con tutta la tensione che aveva in corpo mi diede un grandissimo ceffone. Solo oggi posso capire che cosa provava quel pover’uomo; anzi molte volte mi metto nei panni di mio padre e lo ammiro per quello che ha fatto. Allora, però, per me fu una cosa dolorosa. Probabilmente aveva pensato che se lo avessero arrestato con mia madre, noi avremmo potuto fuggire».
È quello il momento in cui la clandestinità si fa più pesante, ma anche il momento degli incontri decisivi con i giusti: amici, sacerdoti, comuni cittadini che salvano vite disobbedendo a leggi razziali a proprio rischio. Proprio per l’aiuto dato alla famiglia Hassan e grazie all’intervento di Guido che non ha mai dimenticato, molti anni dopo sarà proclamato “Giusto tra le Nazioni” Ernesto May, il gioielliere di Crema che ha consentito ai due fratellini e ai loro genitori di sopravvivere nascosti, fino al momento di incamminarsi per i sentieri impervi delle montagne svizzere e superare il confine.
Ma è forse a questo punto, quando la fuga finisce, che matura la presa di coscienza del piccolo Guido: quando non si tratta più di scappare c’è tempo di pensare. Ancora una volta sono aneddoti in apparenza piccoli che misurano le ferite della storia grande. Accade quando, da bambino affidato temporaneamente a una famiglia nuova per non restare nel campo profughi, capisce che cosa voglia dire non essere “uno di loro”. Accade quando, dopo tutto questo attraversare terre, confini, paure, ci si scopre – ancora ragazzi – molto più vecchi della propria età anagrafica. Accade quando si deve prendere atto crescendo e allontanandosi progressivamente dal dopoguerra che il seme dell’antisemitismo non muore, anche se magari cambia forma in luoghi e tempi.
«Mi è sembrato importante», racconta Giuseppe Altamore, «ricostruire attorno alla storia della famiglia Hassan la storia dell’antisemitismo e dell’evoluzione del rapporto tra i cattolici e i loro “fratelli maggiori”, come li ha definiti nel 1982 Giovanni Paolo II: mi riferisco in particolare alla Dichiarazione conciliare sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, del 1965, e ai Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica. Qui si legge: “Le nostre due tradizioni sono troppo apparentate per ignorarsi. È necessario incoraggiare una reciproca conoscenza a tutti i livelli. Si constata in particolare una penosa ignoranza della storia e delle tradizioni dell’ebraismo e sembra a volte che solo gli aspetti negativi e spesso caricaturali facciano parte della conoscenza comune di molti cristiani”. Parole in cui si legge una chiara presa di distanza dalla rappresentazione del “popolo deicida” che per secoli ha avuto diritto di cittadinanza negli ambienti cristiani. Mi piace pensare che questo dialogo con Guido Hassan vada nella direzione indicata da quei Sussidi. Bisogna tenere alta la guardia: l’antisemitismo non muore, basta fabbricare un nemico e deumanizzarlo perché la storia si ripeta, non necessariamente identica».