«Da Gao si fanno vivi ogni tanto alcuni conoscenti. La gente si lamentava degli occupanti, che bastonavano le persone, tagliavano le mani... Il guardiano della missione mi ha chiamato per dire che la casa dei padri era stata saccheggiata, ma che lui, in quanto musulmano, era stato risparmiato. La chiesa è stata distrutta, tutti i cristiani fuggiti. La nostra scuola, che aveva 1.500 studenti, è diventata il quartiere generale degli jihadisti».
Padre Alberto Rovelli, missionario dei Padri Bianchi, conosce bene quel territorio che si estende tra Gao, Timbuctu e Kidal. Vi ha trascorso cinque dei vent’anni passati in Mali. Un Paese che sino a pochi anni fa era considerato uno dei più stabili e pacifici dell’Africa. E che nell’ultimo anno ha conosciuto un’escalation di violenza che ha portato, la scorsa settimana, all’intervento armato della Francia contro le postazioni di terroristi islamici che dal marzo del 2012 hanno messo le mani su una vasta regione del Nord. «Lì la popolazione è in gran parte musulmana - racconta padre Alberto - ma la convivenza con i cristiani era buona. Mai avuto problemi. Ora di cristiani non ne rimane neanche uno e gli stessi musulmani subiscono le violenze dei fondamentalisti».
Dopo il colpo di Stato, nel marzo del 2012, gruppi tuareg - molti dei
quali ripiegati dalla Libia del post-Gheddafi - appartenenti al
Movimento nazionale per la liberazione della Azawad (Mnla) hanno
dapprima proclamato unilateralmente l’indipendenza di questa vasta
regione. Poi, su questa prima ribellione si sono successivamente
inseriti gruppi di terroristi islamici, appartenenti alla
formazione Ansar el Din e al Movimento per l'unità e il jihad in Africa
occidentale (Mujao) che oggi occupano circa un terzo del Paese, accanendosi
non solo contro i cristiani (in gran parte funzionari provenienti dal
sud), ma anche contro gli stessi musulmani maliani. In questi mesi sono
arrivate continue notizie di esecuzioni sommarie, flagellazioni,
violenze sulle donne e torture. Per non parlare delle distruzioni messe
in atto nella città di Timbuctu, considerata patrimonio mondiale
dell’Unesco, dove gli estremisti hanno abbattuto antichi e bellissimi
mausolei, tombe e biblioteche, con il pretesto che non sono espressione
dell'islam "puro".
«La gente ha molta paura. E non da oggi - continua padre Alberto -.
L'intervento militare francese non fa che crescere la preoccupazione,
anche perché in questo momento è difficile dire come andrà a finire».
Intanto, molti continuano a fuggire. Si parla già di cinquantamila
persone che hanno lasciato le loro case e che vanno ad aggiungersi ai
profughi e agli sfollati dell’ultimo anno. La situazione umanitaria è
critica. Anche perché l’intera regione del Sahel sta vivendo l’ennesima
situazione di siccità e carestia. Secondo gli ultimi dati forniti
dall'Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari dell'Onu (Ocha)
i civili costretti a trovare riparo nei Paesi vicini sono saliti a
150.000 circa: 54.100 si trovano in Mauritania, 50.000 in Niger, 38.800
in Burkina Faso e 1500 in Algeria. Il numero degli sfollati interni si
attesta sui 230.000. Per rispondere all'emergenza il Programma
alimentare mondiale ha calcolato di aver bisogno di aiuti per almeno 129
milioni di dollari.
«La Chiesa nella zona di Mopti sta cercando di aiutare gli sfollati –
conferma da Bamako il segretario della Conferenza episcopale del Mali,
don Edmond Dembele -. Nei prossimi giorni ci sarà una riunione della
Conferenza episcopale nel corso della quale verranno prese delle
decisioni per coordinare al meglio gli sforzi umanitari della Chiesa». Anche l’arcivescovo di Bamako, monsignor Jean Zerbo, lancia un appello:
«Dalle organizzazioni caritatevoli internazionali, a cominciare dalla
Caritas, ci auguriamo un sostegno generoso per aiutarci a dare
assistenza al numero crescente di sfollati e rifugiati, curare i feriti e
chi combatte al fronte». E aggiunge: «Il bisogno di cibo, acqua
potabile, kit igienici, medicinali anti-malarici e beni di prima
necessità andrà crescendo nelle prossime settimane, anche perché siamo
nella stagione fredda e umida, il che complica non poco l'intervento
umanitario. Poi siamo in guerra e non sappiamo quanto durerà».
Padre Alberto Rovelli resta piuttosto scettico e preoccupato:
«L'intervento francese - conclude - sa molto di un'ennesima ingerenza di
tipo neo-colonialista. Personalmente non lo vedo molto di buon
occhio. E penso che non riusciranno a sconfiggere i terroristi. Forse,
però, anche noi, come Chiesa del Mali, avremmo dovuto fare molto di più
in questi anni per mettere in guardia le autorità, far pressione sulle
forze più moderate, denunciare le violazioni dei diritti umani e i molti
traffici di cui tutti sapevano, ma pochi parlavano».
Una carneficina. È questo il risultato dell’intervento dell’esercito algerino per liberare i lavoratori (molti dei quali stranieri) di un sito per l’estrazione del gas a In Amenas, nel sud dell’Algeria al confine con la Libia. «L’esercito algerino è stato costretto ad aprire il fuoco sui terroristi che tentavano di fuggire con gli ostaggi». Così lo spiega un membro della cellula di crisi del ministero dell’Interno algerino, nel pomeriggio di ieri, giovedì 17 gennaio, due ore dopo l’annuncio di un assalto dal bilancio catastrofico: 34 ostaggi morti e 15 rapitori uccisi. «In segno di profonda solidarietà con voi, in questa prova che colpisce gli operai della base di In Amenas, desidero dirvi la mia profonda vicinanza e anche il sostegno della mia preghiera e di quella di tutti i membri della nostra diocesi. Vorrei poter dire alle loro famiglie che li accompagniamo in questa sofferenza con la nostra amicizia e la nostra preghiera».
Sono queste le parole che - a ridosso della tragedia - utilizza monsignor Claude Rault, vescovo di Laghouat-Ghardaia, la grande diocesi algerina del Sahara. «Molti hanno perso la vita. Alle loro famiglie e ai loro vicini vorrei esprimere la mia profonda vicinanza, specialmente alle loro spose e ai loro figli. Questa violenza non ha nome, è cieca, inaccettabile, ingiustificabile perché tocca degli innocenti».
E aggiunge: «Cosa fare di fronte a questa aggressione? Anzitutto condannarla con tutta la forza delle nostre convinzioni umane e religiose. Dio non vuole la violenza. Non può esserne sorgente e giustificazione. Non facciamo quindi ricadere sui nostri amici musulmani il peso di tali misfatti. Anche loro fanno parte delle vittime. E pregare il nostro Dio della Pace che venga a guarire le piaghe vive di chi è nel dolore e nella pena. Che accolga a sé le vittime e rimetta sul retto cammino chi pensa di onoralo commettendo tali orrori. A nome di tutta la comunità cattolica del Sahara algerino, siate certi della nostra profonda compassione e della nostra preghiera per le vittime e per venuta della Pace in tutta questa regione colpita dalla violenza».