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mercoledì 18 settembre 2024
 
 

Per una Chiesa umile, povera, accogliente: il "manifesto" di Bergoglio

03/10/2013  Jorge Mario Bergoglio va nei luoghi dove il Santo si spogliò delle vesti, rinunciò a ogni bene e scelse di seguire il Vangelo senza sconti. Tutto, in quella storia, è un richiamo attualissimo.

La forma del Vangelo è un tetto su mura traballanti di pietre, accanto a un ruscello tortuoso, Rivotorto. L’hanno protetto per secoli questo “tugurio”, una manciata di chilometri dalla Porziuncola, sotto la rocca d’Assisi. Ne hanno custodito memoria e messaggio, perché qui Francesco ha fatto le prime prove della “follia d’amore”, insieme ai due compagni Bernardo e Pietro Cattani. Ora il “tugurio”, tanto angusto che a fatica ci si poteva stare in piedi o stesi per terra, racconta Tommaso da Celano nella cronaca più antica della vita di Francesco, è protetto da una grande chiesa. Ma resta l’icona più genuina dell’impresa di uno che ha scosso la Chiesa, solo decidendo di «vivere a norma del santo Vangelo». Lo scrive Francesco nel suo testamento, memoria di una vita, ma anche consiglio, avviso e avvertimento.

Bergoglio lo afferra nel silenzio della Sistina, si veste di quel nome e ne fa la cifra di misura. E ora viene nella città dove tutto è cominciato, da dove «quegli arditi dispregiatori delle case grandi e suntuose», definizione di Tommaso da Celano, che erano i compagni di Francesco, innescarono anche il confronto, va da sé spesso imbarazzante, con gli stili ecclesiastici.Osserva monsignor Domenico Sorrentino,vescovo di Assisi: «La Chiesa sta tra le lusinghe del trono e la chiamata alla spoliazione». E aggiunge: «Non c’è dubbio che si debba preferire la seconda». Così il viaggio di Jorge Mario Bergoglio, diciannovesimo Papa ad Assisi dal 1228, diventa il “manifesto” del pontificato e ci porta pure il G8 della Chiesa, quella manciata di cardinali incaricati di aiutarlo nella riforma della Curia, perché tutto sia più chiaro e abbia radici coerenti.Sorrentino abita nella stessa casa in cui 800 anni fa Francesco buttò all’aria i broccati di Pietro di Bernardone e i suoi soldi, e ogni giorno ne fa i conti.

Saliamo all’episcopio che fu di Guido, il vescovo che Francesco scelse come giudice,perché ad Assisi era tutto un tumulto;la città ironizzava e chiacchierava su quel giovanotto, venticinque anni di vagabondaggio,feste, donne e armi con i soldi di papà, che improvvisamente sembrava andato fuori di senno e del quale mormoravano le autorità civili e anche quelle ecclesiastiche.  Qui nessun Papa è mai entrato, qui nella stanza che per anni era stata quella del trono per formali udienze ecclesiastiche e che il vescovo ha voluto restituire alla memoria della spogliazione, Bergoglio entra in punta di piedi e riconsegna alla Chiesa, con un gesto solo, la radicalità del Vangelo e il viaggio-manifesto completala scelta del nome.

Osserva Sorrentino: «Francesco fa davanti al vescovo il discernimento definitivo,si consegna alla Chiesa che lo accoglie e il vescovo Guido decide di proteggere l’impresa». Ricorda una frase che Benedetto XVI gli disse quando andò in Vaticano per invitarlo ad Assisi nel 2007: «Francesco spiega Pietro». Il Papa deve essere sostenuto e guidato nel suo ministero dall’umiltà del santo d’Assisi. E Bergoglio è il primo tra tutti i Papi ad aver scelto di chiamarsi Francesco. Entra nella stanza della spoliazione e sbaraglia in un colpo solo maldicenze,polemiche, attriti e, a volte, meschinità lunghe secoli che hanno caratterizzato il rapporto tra il francescanesimo e la Chiesa, anche recentemente dopo il motu proprio di Benedetto XVI (Totius orbis) che riportava sotto la giurisdizione della diocesi la basilica del Sacro Convento,integrando l’azione pastorale dei frati nella vita diocesana. La scelta di Bergoglio, insomma, libera Francesco dal recinto del francescanesimo ed evoca con potenza il sogno di Innocenzo III, che approvò la sua regola, e che s’ammira negli affreschi di Giotto nella basilica superiore, dove Francesco puntella con il suo corpo, come un gigante, la cadente basilica del Laterano.

Camminiamo nel labirinto dell’episcopio, contrappunti di stanze, scale e cortili, frutto della stratificazione architettonica dei secoli e di non sempre sapienti restauri. Francesco aveva deciso di metter fine alle voci e alle polemiche. Lo prendevano in giro perché abbracciava lebbrosi e riparava chiese nel contado. Il padre era molto irritato dopo la vendita sconsiderata di un carro di stoffe preziose a Foligno. Lui faceva, ma era ancora incerto dopo aver passato una notte davanti al crocefisso di San Damiano. Occorreva un gesto, un giudice. E probabilmente accadde proprio sotto la sala della spoliazione, dove c’è un vano aperto e dove la gente andava a chieder consiglio e giudizio al vescovo. Tommaso da Celano riferisce che Francesco «senza dire o aspettar parole, si toglie tutte le vesti».

Era un gesto premeditato? Qualcuno lo aveva consigliato sulla ricercata teatralità? Sorrentino ci pensa spesso: «Sicuramente il vescovo era informato sulle accuse paterne verso Francesco. Forse stava pensando a una mediazione, ma rimane colpito dall’energia e dall’intensità del gesto e non si lascia intimidire dall’autorità dell’imprenditore». Da lì è cominciato tutto e i simboli contano, perché evocano, osserva ancora Sorrentino, «la libertà dal dio denaro e una nuova economia incardinata sulla scelta dei poveri e sulla salvaguardia del creato».

Scenderà anche in una piccola stanza dove monsignor Giuseppe Nicolini, vescovo di Assisi durante la guerra, nascondeva gli ebrei dai nazisti murando la porta ogni sera con la calce e per questo è stato proclamato Giusto tra le nazioni: «Ne ha protetti oltre 300, con l’audacia di Francesco». Bergoglio calca fino al “tugurio” i passi di Francesco, che è riuscito in un’impresa singolare e incomparabile nella storia della Chiesa: dimostrare che è possibile la complicità operosa dell’istituzione e del carisma. Oggi i lebbrosi non ci sono più, ma ad Assisi l’Istituto Serafico, fondato quasi 150 anni fa da don Giovanni Principe, accoglie disabili tra i più gravi, bambini ma anche anziani, che fanno capriole tra tagli alla sanità e aiuto di donatori. Dice la presidente Francesca Di Maolo: «Sono gli ultimi della fila, perché non sentono, non parlano e soprattutto non votano. Sono i lebbrosi del nostro tempo e così il Serafico non è solo un istituto di riabilitazione, ma un laboratorio di cittadinanza».

Bergoglio li va ad abbracciare come Francesco fece con i lebbrosi. E pranza alla mensa della Caritas perché anche ad Assisi, nonostante i soldi del turismo, c’è chi fatica e da dieci anni la Caritas prepara una cinquantina di pasti mezzogiorno e sera. Il Papa ci va da solo e mangia come gli altri, senza stoviglie di pregio. Ad Assisi Bergoglio srotola in faccia alla Chiesa e al mondo l’evangelica energia di Francesco.

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