Mons. Vito Angiuli, vescovo della diocesi di Ugento - Santa Maria di Leuca
Pubblichiamo il testo integrale dell'intervento di monsignor Vito Angiuli, vescovo della diocesi di Ugento - Santa Maria di Leuca, a conclusione del pellegrinaggio dei giovani e della firma della "Carta di Leuca" avvenuta venerdì sul piazzale del Santuario di Leuca dopo il pellegrinaggio notturno dalla tomba di don Tonino Bello ad Alessano.
Cari giovani,
Ill.me Autorità religiose, civili e militari,
cari fratelli e sorelle,
a nome di tutti i Confratelli Arcivescovi e Vescovi della Metropolia di Lecce porgo a tutti voi il più fraterno saluto e il più sentito ringraziamento per aver accolto l’invito a prendere parte a questo momento conclusivo del Cammino dei giovani che culmina con la firma della “Carta di Leuca n.2”. Ringrazio, in modo particolare, i direttori del Servizio diocesano di pastorale giovanile e tutti i loro collaboratori per avere ideato e organizzato questo cammino. Esprimo un sentimento di riconoscenza verso tutti coloro che hanno offerto il loro contributo per la felice realizzazione di questa iniziativa, in modo particolare la Regione, le Prefetture di Brindisi e Lecce, la Provincia di Lecce, i Sindaci e le numerose Istituzioni e Associazioni che hanno aderito all’iniziativa. Una speciale gratitudine sento di dover rivolgere al Generale di Corpo d’Armata, Salvatore Farina, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano. Signor Generale, l’Istituzione da Lei rappresentata ha garantito un fondamentale supporto logistico a tutti i giovani protagonisti di questo importantissimo e bellissimo momento di confronto e di dialogo interculturale e interreligioso. Sottolineo il valore altamente simbolico del gesto compiuto dai Suoi uomini, i Nostri militari, nel portare la fiamma perpetua del Servo di Dio, Don Tonino Bello, dalla sua tomba in Alessano fino al Santuario di Santa Maria De Finibus Terrae a Leuca, come “Tedofori” del suo grande insegnamento e nel contempo testimoni di pace.
Il cammino che abbiamo compiuto, sostando in alcune città e luoghi significativi del territorio salentino, è segno e simbolo della nostra vita e degli ideali ai quali desideriamo che essa si ispiri. Un cammino step by step, passo dopo passo, traguardo dopo traguardo, esperienza dopo esperienza. Un cammino vissuto insieme, condividendo la strada, la fatica e la gioia, il cibo e le riflessioni. Si è così realizzato un incontro tra persone differenti per cultura, religione e condizione sociale. Ognuno ha avuto la possibilità di guardare l’altro negli occhi, face to face, facendo delle diversità una ricchezza comune, un tesoro che tutti possono accrescere con il loro apporto, una sorgente a cui tutti possano attingere.
Concludiamo il cammino notturno, che abbiamo iniziato partendo dalla tomba di don Tonino Bello, sul piazzale di questa Basilica di Leuca, posta sul promontorio prospiciente il mar Mediterraneo, il mare della convivialità, come abbiamo scritto quest’anno nella “Carta di Leuca.2”: una convivialità del creato e dei volti, una convivialità economica e partecipativa, una convivialità in una terra bagnata da un unico mare e abitata da un’unica umanità! “Carta di Leuca” è un’iniziativa promossa dalla Fondazione di partecipazione Parco Culturale Ecclesiale Terre del Capo di Leuca ‐ De finibus terrae.
Questa iniziativa non ha in sé le coordinate della difesa o dell’attacco, ma quelle della mano tesa e dell’abbraccio fraterno. Non è un foglio su cui apporre una firma, ma una parola che evoca i desideri autentici di ogni uomo e genera in ciascuno l’impegno a non arrendersi a tutte le forme di chiusure, ma ad osare la convivialità di volti rivolti, che si scoprono amici. “Carta di Leuca” è una profezia che germoglia in questa terra semplice e povera, in queste nostre comunità umili e laboriose, ma che intendono coinvolgere uomini e donne di buona volontà, perché la convivialità sia possibile. Non è una manifestazione di appuntamenti e di spettacoli, di incontri e di dibattiti, ma è un evento, un cammino da percorrere insieme! Questa mattina, sul promontorio leucano, dove l’Europa si protende verso e oltre se stessa giovani e adulti, seduti gli uni accanto agli altri, ci scambieremo un abbraccio di pace, guarderemo l’altro con lo sguardo amico, carico di simpatia e di gioia per dirci vicendevolmente che la convivialità è possibile ed è il futuro dell’umanità riconciliata da ogni tipo di conflitto. Questo è il nostro sogno. Non un’illusione o un fantasia, ma un’utopia concreta che affonda le sue radici nell’“identità plurale” di questo mare, scritta nel suo contesto storico, geografico e culturale.
Il Mediterraneo, infatti, è un mare che bagna tre continenti: l’Europa, l’Africa settentrionale e l’Asia occidentale, ma non è chiuso in se stesso perché rimane aperto all'oceano Atlantico. Racchiuso tra le terre, e spalancato oltre le sue terre, il Mediterraneo diventa simbolo e prototipo di altri mari che hanno caratteristiche analoghe, ossia quella di essere circondati da più continenti o subcontinenti, anch'essi detti mediterranei: il Mediterraneo Australasiatico, il Mar Glaciale Artico, il Mediterraneo Americano. Molteplici sono i nomi con i quali il Mediterraneo è stato riconosciuto lungo la storia; nomi che, in modo differente, richiamano il significato di “mare in mezzo alle terre”.
I romani lo ritenevano "Mare Nostrum", mare al centro del mondo allora conosciuto, al cui interno vivevano diverse popolazioni, inglobate nella cultura greco‐romana, costituendo un crocevia di traffici commerciali, da una provincia all’altra, indispensabili per fare grande Roma, la città eterna. "Mar Bianco di Mezzo", secondo la denominazione araba. Il termine richiama il riferimento specifico a mettere in contatto le persone e a costruire una convivenza di diverse civiltà, tra conflitti e incontri, all’interno di un unico luogo, quasi un’arena nella quale i differenti attori sociali si incontrano e si scontrano in un medesimo luogo. In quasi tutte le lingue moderne vi è una ripresa del senso originario di “mare medio, mare in mezzo alle terre: l’inglese Mediterranean Sea, il tedesco Mittelmeer, l’ebraico Hayam Hatikhon, il berbero Ilel Agrakal, l’albanese Deti Mesdhe. Comparando i diversi termini con i quali si nomina questo bacino, emerge che l’elemento centrale è quello di essere al centro delle terre e di conseguenza di non essere un luogo di confine e di separazione, ma di connessione e di condivisione. Il Mediterraneo scrive Fernand Braudel è «mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre. Viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in Sicilia, […] tutto questo perché il Mediterraneo è un crocevia antichissimo: da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia. […] il Mediterraneo crocevia eteroclito si presenta al nostro ricordo come un’immagine coerente, un sistema in cui tutto si fonde e si ricompone in un’unità originale».
Guardare il Mediterraneo dal promontorio leucano, dal luogo che porta il suggestivo nome de finibus terrae, vuol dire considerare questo mare non come un confine e un limite, ma come una prospettiva e un orizzonte. Più che limes, Il Mediterraneo dovrebbe essere pensato come limen. Il termine limes, nel suo significato originario, ha un’accezione militare con il significato di chiusura, di limite da non superare; limes indica spazio fortificato e difeso rispetto a un mondo altro, considerato estraneo e ostile. Il termine limen, invece, pur significando anche confine, frontiera, propriamente sta ad indicare la soglia e, in senso figurato, l’inizio, il principio, la soglia, che consente il passaggio, e dunque può essere condizione di rapporto, incontro, condivisione. Esclusivo, il limes, inclusivo il limen. Questo limen costituisce la nostra identità. Siamo Europei del Mediterraneo, mentre coloro che sono dall’altra parte del mare sono i popoli Mediorientali del Mediterraneo e Africani del Mediterraneo. In questo senso, il Mediterraneo è un vero “mare nostrum”. Appartiene a tutti e tutti ne fanno parte. Nessuno è escluso e nessuno se ne può appropriare in senso privilegiato e selettivo. Anche lo straniero è bene accolto.
Il “mare nostrum” ha insegnato la cultura del “noi” e non quella dell’ “io”. Ha educato a guardare con i propri occhi e con quelli dell’altro: occhi plurali per scorgere differenti prospettive, considerandole tutte possibili e tutte utili, pur rimanendo sempre in stretta sintonia con l’unico luogo che tutti accomuna. In quanto limen, il Mediterraneo è finestra che consente di guardare oltre il limite e di conoscere ciò che è dall’altra parte. Questo mare ha insegnato ad affacciarsi alla finestra per vedere e ammirare ciò che è oltre la propria casa. Ha sempre evitato di considerarsi fortezza invalicabile, muro che divide, cimitero che semina morte, tomba che tutto nasconde nella sua tenebrosa oscurità. Ha invitato a spingersi oltre, piuttosto che rintanarsi nel proprio spazio vitale, a immaginare mondi più in là dei propri limiti, a intraprendere viaggi, a compiere traversate senza dimenticare il punto di partenza; avventurandosi da un porto all’altro, da una città all’altra attraverso quelle strade marine, segnate da rotte tradizionali, percorse da secoli e ancora crocevia di nuove diramazioni. Il Mediterraneo è luogo dove sono sedimentati, nella profondità del suo abisso, schegge di vita, residui di civiltà sepolte, memorie di bellezza antica e sempre nuova. Come nelle nove poesie di Eugenio Montale, unitariamente fuse in un unico lungo poemetto nella terza sezione degli Ossi di seppia, dove si sente vibrare un sentimento misto di rassegnazione e di rimpianto, che prende forma in una natura cupa e tesa, popolata da reliquie di vita. Gli Ossi di seppia, infatti, sono conchiglie calcificate che costituiscono lo scheletro delle seppie e si possono trovare abbandonate sulla spiaggia. Sembrano un’inutile scoria dell’abisso che il mare espelle come i propri residui, mentre continua a vivere una sua vita autonoma e misteriosa senza mutarsi in nulla. E l’uomo si separa dal mare, ma continua a portare dentro di sé l’eco e l’insegnamento della sua “legge rischiosa”: «esser vasto e diverso e insieme fisso: e svuotarmi così d’ogni lordura come tu fai che sbatti sulle sponde tra sugheri alghe asterie le inutili macerie del tuo abisso».
Diciamo no alla retorica della divisione che si sta diffondendo
Un mare, il Mediterraneo che assomiglia a una tavola dove i commensali sono tutti coloro che appartengono alle terre che lo circondano. Dove c’è sempre posto anche per l’estraneo e lo straniero, per colui che non appartiene al proprio territorio, ma è sempre accolto non come forestiero e sconosciuto, ma un ospite gradito perché segno di un dono e di una benedizione.
Questa era la identità del Mediterraneo nel passato, questa rimane la sua specificità nel presente e nel futuro. «Noi pensiamo ‐ scrive Giorgio la Pira ‐ che il Mediterraneo resta ciò che fu: una sorgente inestinguibile di creatività, un focolare vivente e universale dove gli uomini possono ricevere le luci della conoscenza, la grazia della bellezza e il calore della fraternità.
La congiuntura storica che viviamo, lo scontro di interessi e di ideologie che scuotono l’umanità in preda a un incredibile infantilismo, restituiscono al Mediterraneo una responsabilità capitale: definire di nuovo le norme di una Misura dove l’uomo lasciato al delirio e alla smisuratezza possa riconoscersi: ‐ liberare i valori tradizionali dagli stereotipi che li mummificano, ‐ sostenere in tutte le occasioni la causa dell’Uomo contro le forze che lo opprimono e ostacolano la sua riuscita, ‐ contenere la smisuratezza del potere e delle passioni, ‐ in breve, lavorare per la realizzazione simultanea di un mondo fatto a misura d’uomo da uomini fatti a misura del mondo».
La visione di La Pira sembra essere messa in discussione dai drammi che ormai si riversano sulle sponde e nelle acque di questo mare. Dense nubi nere si affacciano all’orizzonte: la crisi economica da un lato, l’illusione di una transizione democratica, l’instabilità scatenata dalle “Primavere arabe”, la drammatica diffusione dei gruppi jihadisti nei Paesi del Maghreb, del Medio Oriente e in Europa, contestualmente alla cosiddetta “crisi migratoria”. Tutti questi fenomeni sembrano minacciare e allontanare ogni giorno le speranze e gli sforzi per una riappacificazione dell’intera regione. In questa prospettiva, si sta diffondendo oggi una retorica della divisione in cui il Mediterraneo è presentato come spaccato in due sponde lontanissime: una europea, democratica e a rischio; l’altra araba e africana, ormai fuori controllo e pericolosa per la vicina Europa. In realtà, si fa strada l’idea che qualsiasi politica non può più essere incasellata all’interno di rigidi confini nazionali che, pur rassicuranti, di fatto, trattengono con grande difficoltà la strabordante mobilità alla quale assistiamo.
La cooperazione dei governi diventa indispensabile ora più che mai in un lavoro complesso di bilanciamento fra l’elaborazione delle politiche interne alle quali corrispondono azioni sullo scacchiere nazionale e internazionale. In verità, bisogna riconoscere che in questi ultimi decenni, l’Europa ha cercato di immaginare una politica mediterranea. Il Partenariato Euro‐Mediterraneo (PEM o Processo di Barcellona), avviato nel 1995, mirava a favorire la stabilità e la crescita nel Mediterraneo e verteva sulla cooperazione politica, economica e sociale. La Politica Europea di Vicinato (PEV), sviluppata nel 2004, intendeva stabilire relazioni privilegiate con 16 paesi vicini dell'Unione europea. La successiva Unione Mediterranea (UM), nata nel luglio 2008 con l’obiettivo di dare nuovo vigore e respiro politico al Processo di Barcellona, incapace di conseguire i propri obiettivi, è caduta nel dimenticatoio della diplomazia euro‐mediterranea. Infine, Unione per il Mediterraneo (UPM) si è proposta la creazione di un formato a più alta intensità politica, non essendo soddisfacente il formato diplomatico che oggi costituisce la sostanza del PEM. Un esempio di collaborazione è l’organizzazione intergovernativa Ciheam fondata nel 1962 alla quale aderiscono 13 paesi mediterranei.
Nonostante le impostazioni per alcuni aspetti differenti, si può affermare che tutte le politiche euro‐mediterranee sono basate sull’idea che esista un comune interesse dei paesi dell’UE a sviluppare forme di cooperazione e solidarietà con i paesi della sponda sud del Mediterraneo. Tuttavia, alcuni fattori hanno rallentato o reso del tutto inefficaci questi progetti: la perdurante e irrisolta crisi arabo‐israeliana, la superficiale stagione delle cosiddette “Primavere arabe”, la difficoltà progettuale di un’Europa dominata dalla tecnocrazia e da un pensiero individualista e nichilista a seguito dall’abbandono delle sue millenarie radici culturali e religiose. Appare sempre più evidente il deficit di ispirazione ideale con l’accentuarsi di una retorica di valori tanto alti quanto disattesi nella programmazione concreta. Ci si affida a soluzione diplomatiche, con offerte di denaro in cambio di sicurezza dei propri confini. Si avverte sempre più la mancanza di uno spirito comune e l’accentuarsi della ricerca di un rifugio più sicuro perché più circoscritto. Diciamolo francamente, manca un’anima e con essa un pensiero alto che possa ispirare politiche non di basso profilo.
In questo contesto sociale e culturale, appare ancora più vera e significativa la profezia che ha guidato Giorgio La Pira nelle sue visioni geopolitiche proposte nei “Colloqui Mediterranei”. Nel discorso pronunciato nel primo colloquio4, egli riconosceva che l’attuale stato di crisi riguardava la storia umana in tutte le sue dimensioni, quelle orizzontali e quelle verticali. Una crisi mondiale e planetaria che si accentua anche per l’affacciarsi sulla scena mondiale di nuovi popoli e di nuove nazioni, mentre si operano alcuni cambiamenti profondi nella concezione dell’uomo, di Dio e del mondo, a motivo di mutazioni e di inversioni spaventose sulla scala di valori fondamentali.
A fronte di questa situazione, La Pira riteneva che la Provvidenza avesse assegnato una missione storica ai popoli e alle nazioni che vivono sulle rive di questo “misterioso lago di Tiberiade allargato che è il Mediterraneo”. Questa vocazione e missione storica comune consiste nel fatto che i popoli e le nazioni del Mediterraneo sono portatori di una civiltà fondata sull’universalità dei suoi valori essenziali, tali da costituire un messaggio di verità, di ordine e di bene, valido per tutti i tempi, per tutti i popoli e per tutte le nazioni.
A fondamento di questi valori, egli riconosceva tre componenti: la dimensione religiosa della rivelazione divina che trova in Abramo, patriarca dei credenti, la comune radice soprannaturale. In questo senso, il tempio, la cattedrale e la moschea costituiscono precisamente l’asse attorno al quale si costruiscono i popoli, le nazioni e le civiltà che coprono l’intero spazio del Mediterraneo; la dimensione metafisica elaborata dai greci e dagli arabi; la dimensione giuridica e politica elaborata dai romani. Tre componenti che si sono fuse nell’unica cultura occidentale, con il compito storico di integrare e ordinare in sé elementi economici, sociali, religiosi, culturali e politici. E finalmente costruire la pace: «La pace, l’amicizia, la solidarietà reciproche fra questi popoli e queste nazioni. La pace, l’amicizia e la solidarietà fra Israele e Ismaele; la pace, l’amicizia e la solidarietà fra i popoli prima colonizzati e quelli prima colonizzatori; la pace, l’amicizia e la solidarietà fra tutte le nazioni cristiane, arabe e la nazione di Israele.
Questa pace del Mediterraneo sarà inoltre come l’inizio e il fondamento della pace fra tutte le nazioni del mondo». Definendo il Mediterraneo come un nuovo “lago di Tiberiade”, La Pira sovrapponeva l’immagine biblica dell’origine dei popoli con quella del pluralismo mediterraneo. In quella definizione, egli restituiva alla regione mediterranea la sua importanza storica e moderna, «perché ‐ scriveva ‐ da Oriente e da Occidente le nazioni “vengano a bagnarsi” in questo grande lago di Tiberiade, che è, per definizione, il lago di tutta la terra». Nel suo incessante impegno per il dialogo e la pace, il 22 febbraio 1958, egli si rivolgeva al presidente egiziano Nasser con queste parole: «Se pacificato, il Mediterraneo può diventare, davvero, lo spazio più luminoso della terra». Siamo qui, sul piazzale della Basilica di Luca, avamposto e faro di luce nel Mediterraneo, perché sentiamo nostro questo ideale. Sorge nel mondo una nuova alba.
Al chiarore di questa luce aurorale, firmeremo la “Carta di Leuca n.2”, condividendo i sogni di Giorgio La Pira e don Tonino Bello. La convivialità che soprattutto voi, cari giovani, avete vissuto e sperimentato in questi giorni è garanzia del comune impegno per il futuro. Se ognuno, a suo modo, si impegnerà a pacificare il Mediterraneo, contribuiremo tutti a creare «lo spazio più luminoso della terra».